Alberto Mattioli per La Stampa.it
Maria Stuarda_Marina Rebeka (Stuarda) di spalle Carmela Remigio (Elisabetta)
«Maria Stuarda», in questi giorni all’Opera di Roma, è l’«Eva contro Eva» di Gaetano Donizetti. Impegnato a inventare l’opera romantica italiana, il bergamasco, a Napoli nel 1834, trova un poetino diciassettenne, Giuseppe Bardari, che gli librettizza la «Maria Stuarda» di Schiller giocandola tutta sul contrasto fra le due regine, Elisabetta I d’Inghilterra e Maria Stuarda ex di Scozia, che sono una prigioniera dell’altra, in senso fisico ma anche psicologico.
maria stuarda Teatro dell'Opera di Roma
Tralasciando tutte le complesse rivalità politiche e religiose del caso e inventandosi un toyboy in comune, Roberto, conte di Leicester, favorito di Elisabetta (nella realtà amante della Rossa, che era la «Regina vergine» solo nei panegirici dei cortigiani) ma ovviamente innamorato di Maria. Nell’opera c’è nulla di minimamente vero dal punto di vista storico, beninteso; ma moltissimo di teatrale.
Carmela Remigio, Carlo Fuortes e Marina Rebeka 68
A cominciare dai caratteri. Allora Elisabetta sarà calcolatrice, contraddittoria, Regina prima che donna, una «cattiva» ben più sfaccettata delle tradizionali malvagissime da melodramma. Stuarda rientra invece perfettamente nel canone elaborato dalla cultura italiana fin dai tempi della Controriforma e della tragedia «La Reina di Scotia» di Federico Della Valle: una povera martire della fede prima tradita dai sudditi e poi decollata dalla perfida cugina, gli uni e l’altra protestanti.
Con l’aggiunta, in Donizetti da Schiller via Bardari, anche del coté Maddalena penitente quando, prima di salire sul patibolo, confessa precedenti peccatucci nemmeno tanto veniali (però senza spiegarli, sicché lo spettatore medio del 2017, non esattamente informato su fatti e misfatti della Scozia del Cinquecento, non è sempre in grado di cogliere i riferimenti alle morti violente di Davide Rizzio o del secondo marito della Stuarda, lord Darnley).
Il soprano Marina Rebeka ge
Il momento culminante, che coincide con il finalone del primo atto, è quando le due belve si incontrano. Stuarda dovrebbe mostrarsi pentita e supplice per strappare la grazia, Elisabetta ovviamente la provoca, l’altra perde la testa, per il momento solo metaforicamente, e se ne esce con la celebre invettiva: «Figlia impura di Bolena / Parli tu di disonore? / Meretrice indegna oscena, / In te cada il mio rossore. / Profanato è il soglio inglese, / Vil bastarda, dal tuo piè!».
Cose che nel 1834 su un palcoscenico non si potevano né dire né tantomeno cantare, sicché prima della «prima» l’opera fu vietata dalla censura e forse, si apprende dal libretto di sala, direttamente per ordine del Re di Napoli, Ferdinando II. È invece una panzana tramandata da troppi biografi donizettiani che la moglie di Ferdinando, la «santa» - in realtà attualmente solo beata - Maria Cristina di Savoia, fosse svenuta assistendo alla scena alla prova generale.
Carmela Remigio lt
La realtà è che il soggetto era troppo forte e troppo tragico. E certo contribuì al divieto il fatto che, a una delle prove, le due primedonne, la «musa nera» di Donizetti, Giuseppina Ronzi De Begnis, che faceva Stuarda, e Anna Del Sere, Elisabetta, avessero approfittato della circostanza per insultarsi pesantemente e addirittura venire alle mani.
Chissà che strilli. La Ronzi accusò Donizetti di «proteggere quella p... della Del Sere». Commento del maestro: « «Io non proteggo alcuna di voi, ma p... erano quelle due (Elisabetta e Maria, ndr) e due p... siete voi». E poi dicono che all’opera ci si annoia!
Comunque, per concludere la storia, a Napoli la «Maria Stuarda» fu trasformata in fretta e furia in un pastrocchio medievaleggiante, «Buondelmonte». La vera «prima» si fece l’anno seguente alla Scala, con la Malibran che non solo era fuori forma, ma insistette per cantare i versi originali dell’invettiva invece della versione revisionata dalla censura austriaca. Risultato: opera proibita dopo sei recite.
Il soprano Marina Rebeka
Venendo (finalmente) allo spettacolo visto domenica a Roma, dovrebbe essere chiaro per chiunque abbia avuto la pazienza di leggere fino a qui che la «Maria Stuarda» di Donizetti sta in piedi se ci sono due donne di livello. All’Opera le hanno trovate. Marina Rebeka, Stuarda, esibisce una delle maggiori voci di oggi: poderosa, infaticabile, fresca, piena, squillante, ricchissima di armonici, a posto nelle agilità e perfettamente appoggiata nei piani.
Il suo re naturale esplode nella platea del teatro incendiando il pubblico. Che il timbro non sia personalissimo, i colori non infiniti e il fraseggio, benché sempre appropriato, non troppo fantasioso non inficia una delle prestazioni più clamorose della stagione in corso. Al suo fianco, Carmela Remigio è meno spettacolare ma altrettanto artista.
Già è ottima l’idea di affidare Elisabetta a un soprano lirico invece che a un mezzosoprano. Ma poi la Remigio ha l’intelligenza di risolvere la parte lavorando sull’accento e sulla recitazione molto più che sul volume: ne esce un’Elisabetta tormentata e contraddittoria, teatralmente formidabile.
Carmela Remigio ult
Accanto alle due signore, i maschietti fanno tappezzeria, a parte Alessandro Luongo che è un ottimo Cecil, timbrato e dalla dizione perfetta. Paolo Fanale ha il fisico per fare il bonazzo conteso dalle due donne e anche un malioso timbro latino. Però la voce è un po’ ingolata e nei concertati sparisce. Carlo Cigni, Talbot, ha un’emissione disordinata che si ripercuote talvolta anche sull’intonazione.
Dal podio, Paolo Arrivabeni firma una direzione di (buona) tradizione, attenta a sostenere i cantanti senza diventarne succube, forse con qualche scollamento con il palcoscenico all’inizio ma con due grandi pregi. Il primo è che non pratica i rozzi tagli della (cattiva) tradizione come succede in tre «Stuarde» su quattro; il secondo è che nel lunghissimo finalone impedisce alla primadonna di cantarsi addosso, come fanno quattro «Stuarde» su cinque.
ALBERTO MATTIOLI 400
Lo spettacolo di Andrea De Rosa è molto bello: belle le scene di Sergio Tramonti, belli i costumi di moderato sfarzo di Ursula Patzak, bellissime le luci caravaggesche, di taglio, di Pasquale Mari. Tutto insomma funziona assai bene nel segno di una tradizione rivisitata e depurata. Resta il problema, apparentemente pare insolubile, almeno in Italia, di restituire al romanticismo forsennato e pulp di Donizetti la carica esteticamente rivoluzionaria ed emozionalmente dirompente che aveva per il pubblico della sua epoca.