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Luca Caglio per il “Corriere della Sera – Edizione Milano”
Numero di maglia all'Inter: 18. La sufficienza. Poteva essere un 30 e lode fossero bastati i piedi, tra i primi della classe nella Serie A di inizio Duemila, ma per una laurea ad honorem alla Scala del calcio serve altro: «La mentalità e la costanza di Javier Zanetti» riconosce Stephane Dalmat, francese classe '79, ex centrocampista transitato in nerazzurro tra 2001 e 2003.
Un diamante grezzo prelevato dal Paris Saint-Germain quando lo «sceicco» del pallone era Massimo Moratti. Il presidente stravedeva per il ragazzo, arrivato a Milano poco più che ventenne in una squadra che in vetrina esponeva Vieri, Seedorf e Ronaldo il Fenomeno, «che non voleva mai pesarsi davanti a mister Hector Cuper». È stato una fragranza, Dalmat, una luce intermittente.
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Uno che si è accontentato. Di giocare al Meazza come sui campetti di Joué les Tours, dove da bambino dribblava tutti puntando al sogno di fare il calciatore. Ne è uscita una carriera lunga 15 anni. Trofei, un paio. È rimasto un tifoso interista, anche se ora la maglia gli va stretta, e parla un ottimo italiano: su Instagram incita, commenta, risponde ai fan. Per Lele Adani, suo ex compagno di squadra e ora commentatore sportivo, è stato «uno dei calciatori più sottovalutati della storia».
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Ha ancora molti estimatori, eppure non è mai stato un trascinatore.
«Ho vissuto il calcio come un gioco, un divertimento. Sapevo di avere qualità ma non ero ossessionato dagli obiettivi: diventare un campione, sollevare trofei, entrare nella storia. Mi bastava scendere in campo in uno stadio pieno di gente. Fuori, invece, volevo una vita tranquilla».
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Non andava per locali fino all'alba?
«Uscivo poco la sera, tra campionato e Champions League ero spesso in ritiro. Abitavo in via Fatebenefratelli, vicino a Brera e Montenapoleone, due zone che frequentavo. Il mio vizio era un ristorante che serviva un ottimo pesce spada. Sono stato bene a Milano. Oggi vivo a Bordeaux».
Chi le ha dato il soprannome «Joystick»?
«Clarence Seedorf, per me era un'ispirazione. Alcune mie giocate gli ricordavano quelle che si vedono alla PlayStation. Anche Vieri mi stimava, non capiva perché non venissi convocato in Nazionale, e aveva chiesto a Laurent Blanc di parlare con Zidane per convincere il selezionatore della Francia. Non ho mai debuttato, mi sono fermato all'under 21».
Di cosa si occupa oggi?
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«Ho investito nel settore immobiliare, affitto appartamenti. Ma sono soprattutto un papà: mio figlio, Aaron, è nato un anno fa. La famiglia è un riferimento. Con i primi stipendi da professionista, al Lens, ho comprato casa ai miei genitori, che ora vivono in Martinica. Ho due fratelli, uno è stato calciatore e ha giocato qualche mese a Lecce. Mi piacerebbe tornare in campo come allenatore di un settore giovanile. Ancelotti è il mio tecnico preferito».
Com' è cambiato il calcio?
«Oggi si vince con il collettivo. Vent' anni fa c'erano più individualità, giocatori capaci di fare la differenza».
E lei è cambiato?
«Sarebbe meglio dire che sono rinato».
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Depressione?
«Anche. La verità è che ho rischiato di morire. Nel 2017 ho un brutto incidente in moto, a Bordeaux: perdo il controllo e vado a sbattere contro un muro. Sei giorni di coma. Al risveglio, i medici dicono che potrei non camminare più. Ho il bacino fratturato, mi sottopongo a 25 interventi, le viti tengono insieme le ossa. Passo sei mesi su una sedia a rotelle. Reagisco, faccio riabilitazione, piango molto e ho paura. Solo i miei familiari lo sanno. Mi sento solo. Ma alla fine vinco la partita, la più difficile, e torno in piedi. Cammino. In questo caso ho avuto la mentalità del campione».
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