Estratto da “Quando eravamo i padroni del mondo” di Aldo Cazzullo, in uscita martedì 26 per HarperCollins – pubblica dal “Corriere della Sera”
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L’impero romano non è mai caduto davvero, né mai cadrà. Ha continuato a vivere nelle menti, nelle parole, nei simboli degli imperi venuti dopo. Noi italiani non siamo i discendenti diretti degli antichi romani: ci siamo mescolati con molti altri popoli, dai barbari agli arabi. Ma dei romani possiamo rivendicare l’eredità. Non soltanto abitiamo la stessa terra, viviamo nelle città da loro fondate, percorriamo strade da loro tracciate; Roma vive nella nostra lingua, nei nostri palazzi, nei nostri pensieri. Nel nostro modo di parlare, di costruire, di pensare, qualcosa dell’antica Roma è rimasto. E se oggi siamo cristiani, è perché Roma diventò cristiana.
Roma ha ispirato i romanzi, i fumetti, i film che abbiamo visto da ragazzi: da Quo Vadis ad Asterix a Ben Hur (molto prima del Gladiatore). Nessuna epoca storica ha influenzato così tanto le generazioni successive; anche perché gli anni della fondazione dell’impero sono gli stessi di un altro evento che ha cambiato la storia dell’uomo, la nascita e la crocifissione di Gesù.
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Lo stile dell’antica Roma non è mai morto, e periodicamente risorge nella storia. Dal Rinascimento al Neoclassicismo, da Palladio fino a Canova, alcuni tra i più grandi artisti dell’Occidente hanno disegnato, dipinto, scolpito come facevano – o pensavano che facessero – gli antichi romani.
Ogni impero della storia si è creduto e si è presentato come l’erede dei romani. Bisanzio. Mosca: la «Terza Roma». Il Sacro Romano Impero di Carlo Magno. L’impero austroungarico e quello tedesco, che del Sacro Romano Impero si proclamarono continuatori.
E poi l’impero britannico, che teneva l’India con un pugno di soldati quasi tutti indiani, così come Roma teneva a bada i barbari con eserciti composti e comandati da barbari, che spesso potevano mantenere il loro grido di guerra. Napoleone adorava Cesare, scrisse un libro su di lui, e non volle farsi incoronare re dei francesi, bensì imperatore.
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L’impero americano, proprio come quello romano, si è costruito stringendo alleanze e patti diversi con diversi popoli, e considerando l’influenza militare e culturale più importante dell’occupazione dei territori; poiché il vero potere non è quello sulla terra ma quello sulle anime, oltre che sull’economia.
Non a caso, oggi anche gli imperatori digitali — in modo dichiarato Mark Zuckerberg ed Elon Musk, ma non soltanto loro — guardano agli imperatori romani: i primi che si trovarono a governare immense comunità di persone che non si sarebbero mai incontrate fisicamente, parlavano lingue diverse, pregavano diverse divinità, ma nascevano, vivevano e morivano sotto lo stesso cesare; e quindi avevano bisogno di riconoscersi negli stessi volti, nelle stesse storie, nelle stesse idee.
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Perché si poteva diventare romani qualunque fosse la propria origine, qualunque fosse il colore della propria pelle, qualunque fosse il proprio dio. E si poteva diventare romani restando ispanici, galli, traci, siriani, greci, egiziani, nubiani... Le questioni che Roma dovette affrontare — i flussi migratori, l’integrazione degli stranieri, lo stato di guerra permanente — sono le stesse che noi dobbiamo affrontare. E va ricordato che i romani, per quanto intimamente convinti della propria superiorità, non erano razzisti; tranne che con i goti, presi in giro perché troppo alti e troppo biondi.
Le radici dell’Occidente
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Quello che oggi chiamiamo Occidente è una costruzione eretta sulle fondamenta dell’antica Roma. In tutto l’Occidente, la lingua della politica e del potere è la stessa che si parlava a Roma due millenni fa. Imperatore e popolo sono parole latine. Come dominio e libertà. Dittatore e cittadino. Legge e ordine (sia pure in un’accezione diversa). Re e giustizia. Eroe e traditore. Cliente e patrono. Candidato ed eletto. Autorità e dignità. Patrizi e plebei. Potenti e proletari. Pretore e principe. Ira e clemenza. Infamia e onore. Congiura e sedizione.
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Colonia è una parola romana, come trattato, come società, come suffragio, da cui presero il nome le donne che si batterono per il diritto di voto, le suffragette. Il Palazzo trae origine dal Palatino, il colle di Roma su cui sorgeva la reggia. Il fascismo prende il nome e il simbolo dai fasci portati dai littori: bastoni legati a una scure, a simboleggiare il potere di vita e di morte. Anche socialismo e comunismo discendono da parole latine: societas e communio. La stessa parola presidente viene dal latino «praesidere», presiedere. Gladiatori erano i volontari che nei piani della Cia avrebbero dovuto resistere all’invasione sovietica; oggi sui gladiatori, quelli veri, si continuano a fare grandi film.
E molti leader, pur di garantirsi il «consensus», si fanno «propaganda» e continuano a distribuire «panem et circenses», espressione coniata da uno dei padri della satira, Giovenale.
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Gli Stati Uniti, la Francia, la Spagna, oltre ovviamente all’Italia oggi hanno il Senato, come l’antica Roma. Zar e Kaiser derivano da Cesare, e quindi ogni imperatore si è sentito discendente del vero fondatore dell’impero romano. Ma questo vale un po’ anche per molti presidenti degli Stati Uniti d’America. «Civis Romanus sum», sono un cittadino romano, ripeté John Kennedy. Molti leader americani hanno sentito di avere in comune con i romani il «destino manifesto» di reggere e governare il mondo. E il simbolo del potere dell’America è lo stesso di quello di Roma: l’aquila.
Anche la lingua della religione nasce nella città eterna. Fede, religione, pontefice sono parole latine. Come credere. Come dio (dal greco Zeus). Come, per venire al linguaggio della guerra, arma, esercito, militare, generale, soldato (da solidarius: colui che riceve una paga). E sono parole latine anche concordia, amicizia, amore, famiglia, matrimonio; anche se la sposa non si vestiva di bianco, ma di giallo.
Molte città italiane hanno nomi romani, perché dai romani furono fondate. Aosta evoca Augusto, Torino la tribù dei taurini, Mediolanum è la città che sta in mezzo, Cividale del Friuli il Foro di Giulio Cesare, Firenze la città del fiore...
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Ovviamente, non è solo questione di parole. Dietro le parole ci sono le cose. Chi in ogni epoca della storia si è trovato a governare vasti territori e a influenzare diversi popoli ha visto nell’impero romano un modello. Le leggi. Le strade. Il calendario: in tutte le lingue dell’Occidente sono latini i nomi dei giorni (tranne il sabato, che viene dall’ebraico) e dei mesi, da gennaio a dicembre; e milioni di persone nascono e muoiono nei mesi che hanno preso il nome da Giulio Cesare — luglio — e da Ottaviano Augusto, ovviamente agosto. E poi la strategia militare. L’arte di dividere e comandare; ma anche l’arte di includere gli stranieri, di accogliere gli immigrati, di creare nuovi cittadini. La capacità di rispettare usanze e divinità locali, ma anche di mettere in comune un’idea di giustizia e di civiltà; sia pure a costo di tanta sofferenza, di crudeltà, di quel sangue di cui sono lastricate le vie della storia.
L’era di Cristo
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Molto di quel sangue è stato versato dai primi cristiani. Martiri: testimoni di una fede professata in silenzio, nell’ombra, al prezzo del dolore e della morte. Gli imperatori romani sono pensati come crudeli persecutori dei seguaci di Gesù; e qualcuno, da Nerone a Diocleziano, lo fu davvero. Ma se oggi il cristianesimo è la religione dell’Occidente, se il Papa è a Roma, se in molti pensiamo Gesù come il nostro Dio incarnato tra noi, lo dobbiamo all’impero. A Costantino e a sua madre Elena, che portò a Roma la vera croce, il legno cui secondo la tradizione Gesù era stato inchiodato. Lo dobbiamo a quella straordinaria scelta politica, se non messianica, di rendere cristiano l’impero di Roma.
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La storia romana non è solo storia di vittorie militari e di sapiente esercizio del potere. È anche storia di valori morali e civili. Di donne e uomini disposti a morire per la patria, per la comunità, per qualcosa che andava oltre se stessi. Noi oggi non sappiamo se davvero Clelia sia fuggita a nuoto dal campo del re etrusco Porsenna portando in salvo le compagne, per poi consegnarsi di nuovo come ostaggio; o se Attilio Regolo sia davvero tornato a Cartagine a farsi uccidere in modo atroce, solo per tenere fede alla parola data. Ma certo gli antichi romani lo credevano fermamente.
COLOSSEO ANTICA ROMA
Anche Repubblica è una parola latina. Come Costituzione. E a Roma nacque l’embrione di quella che oggi chiamiamo democrazia. È vero che le assemblee del popolo si riunivano già nell’antica Grecia. Ma soltanto Roma creò un sistema codificato e duraturo di elezioni, con i comizi, le campagne elettorali, le strette di mano dei candidati, le votazioni, le proclamazioni. Al tempo di Cicerone era il popolo, non il Senato, a eleggere i magistrati; era il popolo, non il Senato, a fare le leggi. La plebe aveva i suoi rappresentanti, i suoi diritti, i suoi poteri, compreso quello di veto: altra parola latina entrata nel linguaggio universale della politica.
Repubblica del resto significa cosa pubblica: nasce a Roma l’idea che lo Stato sia di tutti. E se per i greci la dimensione politica era la città, per i romani divenne il mondo; e un uomo di un altro colore, di un’altra lingua, di un’altra religione poteva diventare romano. Naturalmente Roma non fu mai una democrazia in senso moderno.
Matrone
IL FORO DI CESARE ANTICA ROMA
La politica escludeva le donne; anche se rispetto ad altre civiltà antiche, compresa quella greca, le donne romane godevano di maggiore libertà, non erano relegate in casa, frequentavano le arene e le terme, cenavano con gli uomini; inoltre le mogli non prendevano il nome del marito e potevano possedere, comprare, vendere; tutti diritti che alle nostre nonne furono riconosciuti soltanto nel 1919, poco più di cent’anni fa.
La politica escludeva anche gli schiavi, che i romani chiamavano servi, altra parola ancora viva. Ma gli schiavi talora venivano liberati (e potevano diventare molto potenti). Talora si ribellarono. Anche la rivolta di Spartaco ha ispirato generazioni di rivoluzionari: spartachisti si chiamarono i comunisti tedeschi che insorsero alla fine della Grande Guerra. Proprio come Spartaco, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht fecero una brutta fine; ma è incredibile che nella Berlino del 1918 ci fossero ribelli pronti a battersi e a morire in nome di un misterioso schiavo che aveva fatto lo stesso duemila anni prima.
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Una vicenda immensa, durata dodici secoli — dalla leggendaria fondazione di Roma a quella che viene definita la caduta dell’impero —, non si può raccontare per intero. Si rischierebbe la fine di Funes El Memorioso, il personaggio di Borges dotato o meglio condannato a una memoria prodigiosa: ricordando tutto, in realtà non sapeva niente; e si perdeva in milioni di dettagli trascurabili, senza trattenere le cose importanti. Anche se ci sono storie che non si possono non raccontare. A cominciare da quella di Giulio Cesare — forse il più grande uomo mai esistito — e del suo erede Augusto, dei loro nemici Pompeo e Marco Antonio, dei loro nobili oppositori Cicerone e Catone, di donne potenti come Cleopatra e Livia. Ricordando sempre che, pur popolata da figure eccezionali, Roma fu innanzitutto un sistema: una cultura politica, una macchina militare, una costruzione segnata da un terribile realismo e da una grande carica mitica e letteraria.
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Di Roma restano molte vestigia, che sono soprattutto segni. I templi dell’antica capitale sono stati in gran parte distrutti: l’unico che resiste integro è il Pantheon, in quanto dedicato a tutti gli dei, compreso l’unico Dio che aveva preso il sopravvento. Di quella che fu la più grande e splendida piazza, il Foro, restano colonne smozzicate, oltre a tre grandi archi (e in quello di Tito è scolpita la Menorah, il candelabro a sette braccia trafugato dal tempio di Gerusalemme e finito forse a Bisanzio). Lo stesso Colosseo rischia di rivelarsi una delusione: è il monumento più visitato d’Italia; dentro però non c’è niente, ed è incredibile che niente vi sia mai organizzato, a parte la presentazione del libro di Totti. Qualche solone dice: così il Colosseo diventerebbe un’arena. Ma il Colosseo è un’arena! E ha senso solo se rimane tale.
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Come non capire che la differenza tra le vestigia romane e quelle di altre grandiose civiltà è proprio nel fatto che quelle romane sono vive? Anche le piramidi sono straordinarie; ma sono monumenti morti a una civiltà morta. La civiltà romana non è morta; e non soltanto perché il Pantheon è diventato una chiesa, vi riposa un artista meraviglioso come Raffaello, vi è sepolto il re che ha fatto l’Italia.
L’unica chiave per raccontare oltre mille anni di storia è capire quel che ci resta. Raccontare i motivi, le cose, le storie per cui la civiltà romana è viva; e noi italiani, per quanto molto diversi, ne siamo indegnamente gli eredi, e di questo dovremmo essere più consapevoli e più orgogliosi.
Roma è anche storia di grandi artisti. Pittori, scultori, architetti. E poeti, che hanno appreso la lezione dei greci, l’hanno fatta propria e portata sino alle frontiere del mondo conosciuto, e sino ai confini di ciò che è in noi.
Per questo, per capire come Roma faccia ancora parte delle nostre vite e delle nostre anime, dobbiamo partire dall’origine.
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Tutto, come sempre, comincia da un grande viaggio. Da una città in fiamme, sulla costa occidentale di quella che oggi chiamiamo Turchia. Da un eroe in fuga con il padre e con il figlio, alla ricerca di una nuova patria, sull’altra sponda del mare. E da un poeta, Virgilio, che molti secoli dopo ha inventato quella storia, e scrivendola l’ha resa vera.
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