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    “AVEVO BISOGNO DI CAMBIARE PER DIVENTARE IL PIÙ FORTE” - L’INTERVISTA A GIGIO DONNARUMMA, DOVE PARLA DEL SUO ADDIO AL MILAN, L’ARRIVO AL PSG E L’EUROPEO VINTO DAGLI AZZURRI: “LE SCELTE PROFESSIONALI LE HO SEMPRE PRESE DA SOLO, ME NE SONO ANDATO DAL MILAN E NON AVEVO CONTATTI CON ALTRE SQUADRE, LO GIURO, MA ERO SICURO CHE CON UN BUON EUROPEO QUALCUNO SI SAREBBE FATTO VIVO. PARIGI MI HA SEMPRE CERCATO, QUANDO HO FIRMATO IL PRESIDENTE MI HA DETTO...” – POI SU BUFFON, LA CHAMPIONS E IL SOPRANNOME “DOLLARUMMA…”


     
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    Ivan Zazzaroni per il “Corriere dello Sport”

      

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     Dicevano che non fosse forte nelle uscite. Ne ha compiuta una che potrebbe passare alla storia: a ventidue anni - senza contratto, né certezze d’altro tipo, se non la consapevolezza del proprio talento e le relazioni mercantili di Mino Raiola - ha lasciato il club che l’ha lanciato e nel quale si è affermato, il Milan, per inseguire un (bi)sogno personale che prevedeva momenti di notevole impopolarità. 

     

    Un patto con se stesso, ma anche un originale salto nel buio, vista l’età dell’acrobata. La forza dei milioni - si è scritto - la tipica avidità del calciatore. Di un “giovane vecchio” il cui motto potrebbe essere riassunto da un aforisma di Bierce: “speranza: fusione tra avidità e aspettativa”. Per la seconda volta nel giro di pochi anni il suo cognome è stato così storpiato in “Dollarumma”. 

     

    E ci sono voluti uno strepitoso Europeo e il titolo di miglior giocatore del torneo per attenuare le irritazioni tifose e ridurre la quota delle offese.  

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    Gigio Donnarumma ora è a Parigi, «dove oggi piove», mi dice. È a Parigi insieme a tanti pezzi di serie A - Hakimi, Marquinhos, Verratti, Paredes, Icardi - e ai gioielli più preziosi del calcio mondiale: Sergio Ramos, Wijnaldum, Di Maria, Neymar, Mbappé. E Messi. 

     

    «È incredibile, un autentico colpo di teatro: quando si è saputo del suo addio al Barcellona non potevo immaginare che me lo sarei ritrovato qui, questa è una squadra di fenomeni. Messi si allena già con noi, scarso eh? Sinistro discreto, dovrebbe migliorare col destro».  

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    Capelli più corti del solito, fisico asciutto, maglietta bianca, Donnarumma è in totale leggerezza. Gli ricordo che la serie dei rigori è finita da un pezzo. Lui si apre a un sorrisone. «Cinquanta giorni fantastici dall’inizio del ritiro alla finale di Wembley. I ragazzi, quei momenti mi mancano. Ogni tanto vado su youtube, rivivo alcune tappe del nostro percorso e mi emoziono. Con i compagni di Nazionale ci sentiamo spesso o ci scriviamo, abbiamo una chat azzurra».  

     

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      Quando e quale, lo scatto decisivo?  

    «Quella vittoria è il frutto del lavoro del Mancio, un allenatore incredibile, e di un gruppo che provava piacere a stare insieme. Nessuna pesantezza, zero noia, facevamo le cose di sempre ma con un gusto diverso. Respiravamo unità, e ogni partita, anche se da casa potevate non notarlo, la vivevamo come se fosse l’ultima. E poi Ciro, Lorenzo, io, noi terroni siamo matti e sappiamo come fare gruppo. Sul pullman partivamo con “Ma quale dieta, me piacen ‘e purpett” e ci trascinavamo dietro anche i più timidi. Jorge (Jorginho, nda) mi chiedeva continuamente di ricordargli il ritornello, soltanto quello, ed era tra i più attivi».  

     

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    Quella la favola. Prima, però, avevi subìto gli effetti di un addio doloroso.  

    «Un ricordo spiacevole quando sono uscito la prima volta dall’Olimpico. Quella contestazione, ho cercato di non pensarci troppo».  

     

    Cosa ti ha spinto a chiudere col Milan?  

    «Non vorrei parlare dell’ultima stagione, non avrebbe senso oggi, cambiamo discorso. Al Milan sono stato otto anni, era casa mia, lì ho vissuto momenti bellissimi. Il Milan ancora oggi mi emoziona, ho grande rispetto per le persone che vi lavorano e per i tifosi. Quando ho saputo che il direttore (Gazidis, nda) stava male gli ho scritto augurandogli di tornare in fretta a Milanello, il suo luogo… Ma la vita è fatta di scelte, avevamo ambizioni diverse. Del Milan resterò per sempre tifoso».  

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    Non fare il Lukaku.  

    «Otto anni non si dimenticano, ma avevo bisogno di cambiare per crescere, per migliorare e diventare il più forte. Avvertivo la necessità di nuovi spazi, di nuove realtà».  

     

    Già nel 2017, durante gli Europei Under 21, ti ribattezzarono “Dollarumma”: se hai sfidato nuovamente l’impopolarità significa che la motivazione era forte.  

    «Ci sono decisioni che hanno un tempo di maturazione più lungo. Le scelte professionali le ho sempre prese da solo, la mia famiglia - tutti sportivi praticanti - mi ha sempre lasciato campo libero e mi ha sostenuto. La stessa cosa ha fatto Mino. Lui rispetta la volontà dei suoi assistiti al cento per cento, poi naturalmente fa di tutto per soddisfarne le richieste. Me ne sono andato dal Milan e non avevo contatti con altre squadre, lo giuro, ma ero sicuro che con un buon Europeo qualcuno si sarebbe fatto vivo. 

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    Un lungo inseguimento.  

    «Quando ho firmato il presidente mi ha detto “Finalmente siamo insieme”. Ora sto benissimo, sono molto rilassato, l’anno scorso la squadra non ha vinto la Ligue1, ma il vero obiettivo è un altro, la Champions».  

     

    Quattro anni fa, per restare a Milano, rifiutasti tanto il Psg quanto la Juve e le cifre non erano differenti.  

    «Parigi mi ha sempre cercato, ma in quel momento la priorità era il Milan. Oggi anche grazie al Milan mi sento più sicuro, maturo, e sono migliorato tecnicamente. Gigi Ragno e Nelson (Dida, nda) hanno insistito parecchio sul lavoro con i piedi e su particolari che tengo per me». 

     

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    Ambizioni, crescita: ma hai solo ventidue anni.  

    «Ho il vissuto di uno di trenta». Adesso la risata è grassa.  

     

    Mi tornano in mente le parole di Ravanelli, il suo recente ricordo di quando provasti per la Juve: «Già allora era mostruoso». L’anno il 2011, ne avevi soltanto dodici.  

    «A Vinovo, è vero. Ma non me la sentii di lasciare casa, i miei genitori. Era troppo presto».  

     

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    Rischiamo di doverti sopportare per altri vent’anni, se tra i tuoi obiettivi c’è anche quello di fare come Buffon.  

    «Gigi è una forza della natura. L’ho sentito tante volte nei giorni scorsi, ci siamo scritti. Non molla di un centimetro, l’ho visto col Sassuolo, in porta sta ancora benissimo, ha fatto due grandi parate. Fisicamente è una meraviglia».  

     

    Il narcisismo può fare miracoli.  

    Sorride. «Gigi è un modello inimitabile».  

       

    La sfida con Navas, che ha rinnovato per altri tre anni, è reale o una barzelletta?  

    «È uno stimolo in più, e mi affascina».  

     

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    La serie A ha perso in poche settimane te, Lukaku, Hakimi e potrebbe salutare anche Ronaldo, se il Psg non si ritenesse ancora appagato. Dobbiamo cominciare a preoccuparci?  

    «La serie A è ancora uno dei primi tre tornei europei ed è super competitiva. Ricordo a tutti che il calcio italiano è campione d’Europa con Bonucci, Chiellini, Insigne, Di Lorenzo, Locatelli, Pessina, Ciro, Barella e insomma gente che sarà protagonista anche quest’anno. Mancini ha dimostrato che facendo star bene mentalmente e fisicamente i giocatori si possono ottenere spettacolo e risultati».  

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    Gigi, ma si può essere ancora giocatori-bandiera in questo calcio?  

    «Certo. Ma club e giocatore devono condividere gli stessi programmi, avere ambizioni e prospettive simili».  

     

    Condò ha scritto che se fossi stato alla Juve, non ti avrebbero lasciato andare.  

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    «Ho preso altre strade».

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