Paolo Mastrolilli per "La Stampa"
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Volevano rapirla qui, a Brooklyn, e portarla con un'imbarcazione fino in Venezuela. Da lì, Paese amico degli ayatollah, sarebbe stata trasferita in Iran per fare i conti con la giustizia, o quanto meno la loro idea della giustizia.
Teheran risponde che questo piano per il sequestro della giornalista Masih Alinejad è solo una fantasia hollywoodiana, magari pensata per far saltare il negoziato in corso allo scopo di resuscitare l'accordo nucleare.
Però quattro cittadini iraniani sono stati incriminati dalla procura di New York, e un quinto complice arrestato in California, perché l'Fbi ha raccolto le prove documentate che facevano sul serio.
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Masih è un'oppositrice del regime, molto impegnata nella difesa dei diritti delle donne, che aveva lasciato la Repubblica islamica nel 2009. Nel 2014 si era trasferita a Brooklyn, dove viveva col marito e un figlio.
Scriveva articoli sui giornali, gestiva popolari account sui social, e conduceva il talk show satirico «Tablet» per il servizio persiano di Voice of America. Il suo attivismo, che prendeva di mira in particolare l'obbligo di usare il velo, dava assai fastidio agli ayatollah, al punto che nel 2018 avevano costretto sua sorella ad andare in tv per ripudiarla.
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L'anno dopo il fratello Alireza Alinejad, padre di due figli, era stato arrestato, rinchiuso nella prigione di Evin, sottoposto a interrogatori e torture per dieci mesi, e poi condannato a otto anni di prigione durante un processo senza avvocato.
Questi abusi li aveva rivelati la stessa Masih nell'agosto scorso, pubblicando un editoriale sul Washington Post in cui denunciava che il regime voleva sequestrarla: «Il governo iraniano ha scatenato una campagna sui social media, chiedendo il mio rapimento. Jame-Jam, il principale giornale del Paese, ha ammonito: "Masih! Stai pronta! Tu sarai la prossima ad essere sequestrata". Ebrahim Rezaei, vice capo della Commissione Giustizia del Parlamento, ha sollecitato i servizi di intelligence a rapirmi».
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Alinejad aveva scritto di non essere sorpresa, perché questo è il modo in cui opera il regime. Aveva ricordato il rapimento degli ostaggi americani nel 1979 e l'uccisione a Parigi nel 1991 dell'ex premier Shapour Bakhtiar, fino all'arresto del giornalista del Post, Jason Rezaian.
Dopo il caso Khashoggi sembrava impossibile che lo stesso incubo si ripetesse sul fronte iraniano. Invece era tutto vero, come dimostrano le incriminazioni annunciate martedì dal procuratore federale di Manhattan Audrey Strauss: «Quattro accusati avevano monitorato e pianificato il rapimento di una cittadina americana di origini iraniane, che aveva criticato l'autocrazia del regime, per portarla con la forza in Iran, dove il suo destino sarebbe stato incerto nel migliore dei casi».
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Il complotto era stato guidato dal cinquantenne Alireza Shavaroghi Farahani, membro dei servizi segreti di Teheran, insieme ai colleghi Mahmoud Khazein, Kiya Sadeghi e Omid Noori.
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Questi quattro responsabili sono stati incriminati, ma vivono nella Repubblica islamica. Un quinto complice, Niloufar "Nellie" Bahadorifar, è stato invece arrestato il primo luglio in California, dove gestiva il supporto finanziario dell'operazione.
Il primo piano era stato quello di contattare i parenti di Masih in Iran, affinché la invitassero ad un incontro in un Paese terzo, dove sarebbe stata arrestata. Siccome si erano rifiutati, erano passati al piano B, che prevedeva il rapimento a Brooklyn.
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Farahani aveva assunto un detective privato, per mettere sotto sorveglianza la giornalista e la sua casa. Khazein aveva verificato come portarla da Brooklyn al mare, mentre Sadeghi aveva cercato un'imbarcazione veloce di tipo militare, per trasferirla da Manhattan in Venezuela.
«Quando mi hanno detto che c'erano minacce di morte contro di me - ha commentato Alinejad - ho risposto che non era una novità. Sono in America, non possono farmi nulla. Poi però l'Fbi mi ha mostrato le foto che avevano scattato della mia vita privata, e ho preso la cosa sul serio».
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Però non smetterà il suo attivismo: «Assolutamente no. Perché le madri di cui diffondo i video di protesta sono le mie eroine. Ho paura, ma devo dare loro una voce».
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