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    MEDIORIENTE IN FIAMME - L’ISIS CONTROLLA METÀ SIRIA E BUONA PARTE DELL’IRAQ E AVANZA VERSO DAMASCO E BAGHDAD - LO SCONTRO FINALE SARÀ CON LE MILIZIE SCIITE FORAGGIATE DALL’IRAN - IL DOPPIO RUOLO DEI SAUDITI


     
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    1. L’ISIS MARCIA SU DAMASCO E BAGHDAD - L’ULTIMA DIFESA SONO LE MILIZIE DELL’IRAN

    Maurizio Molinari per “la Stampa”

     

    palmira palmira

    L’imam iracheno ribelle, il generale siriano a corto di truppe ed il regista iraniano dell’«Asse di resistenza» delle milizie sciite: sono i capi militari che difendono Baghdad e Damasco dall’avanzata delle truppe del Califfo dello Stato Islamico (Isis).


    L’imam ribelle è Moqtada al Sadr, già leader della rivolta sciita anti-Usa, guida l’«Esercito del Mahdi» ovvero almeno 20 mila armati con la roccaforte a Sadr City, cuore di Baghdad. Appena Ramadi è caduta, con Isis a soli 112 km e il Califfo intento a preannunciare la «liberazione di Baghdad e Kerbala», è stato l’imam ribelle a rispondere: «Venite avanti, riempiremo la terra con i vostri cadaveri». 

     

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    Se il Califfo Abu Bakr al-Baghdadi teorizza il genocidio degli sciiti - che sono maggioranza a Baghdad e Kerbala - Al Sadr è il leader più carismatico e violento dell’Hashd al-Shaabi, la Forza di mobilitazione popolare che riunisce 90 mila miliziani sciiti addestrati dall’Iran, agli ordini del generale Falih al Fayyadh e di Hadi Al Amiri. Ciò significa che a difendere la capitale, e a guidare i tentativi di allontanare Isis, non sono i soldati dell’esercito del premier Al Abadi ma i miliziani che, dall’inizio della guerriglia anti-Usa nel 2003, combattono con metodi simili a Isis. I Kataeb Hezbollah, per esempio, dopo la presa di Tikrit hanno fatto scempio dei sunniti al punto da dover essere ritirati in fretta. 

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    UN MINI-STATO DI HEZBOLLAH
    La difesa di Damasco è in condizioni più critiche perché dopo quattro anni di guerra civile l’esercito di Bashar Assad è allo stremo: dei 250 mila soldati che aveva ne sono rimasti la metà, a cui si aggiungono 125 mila miliziani sciiti - libanesi, iracheni, pakistani ed afghani - dell’«Asse della resistenza».

     

    È un esercito senza gli armamenti Usa lasciati all’Iraq, ridotto a difendere sacche isolate ed alle prese non solo con l’avanzata di Isis - giunto a Palmira, 210 km della capitale - ma anche con quella dell’Esercito della Conquista, la coalizione di ribelli sostenuti da Turchia, Qatar e sauditi, che in aprile ha catturato la provincia di Iblib. Questi motivi hanno spinto il ministro della Difesa siriano, Fahd Jassem al-Freij, a recarsi a Teheran per chiedere l’invio di reparti di terra.

     

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    «L’Iran sta costruendo uno Stato dentro lo Stato in Siria come polizza di assicurazione sul dopo-Assad» spiega Charles Lister, analista del Brookings Doha Center in Qatar, secondo cui il crollo del regime portebbe ad un mini-Stato Hezbollah, la milizia libanese che ha 5000 combattenti in Siria e non ha mai perso una battaglia con Isis.
     

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    Che si tratti di dover coordinare le milizie sciite irachene o di sostenere il traballante esercito siriano, a decidere con quali risorse e metodi farlo è Qassem Soleimani, il leader della forza Al Quds dei guardiani della rivoluzione che dal 1998 è dietro ogni fazione alleata di Teheran in Medio Oriente. È lui ad aver creato l’«Asse della resistenza» sciita e non lo cela. Quando nel 2007 il comandante americano David Petraeus gli rendeva la vita difficile in Iraq, reagì inviandogli un sms sul cellulare: «Dovrebbe sapere che sono io a guidare la politica iraniana in Iraq, Libano, Gaza e Afghanistan, l’ambasciatore a Baghdad è un mio uomo e anche il prossimo lo sarà». Come dire, qui comando io. 
     

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    IL GENERALE SULEIMANI
    Se allora Suleimani si muoveva di nascosto, oggi le sue foto a fianco dei miliziani, dentro e fuori Baghdad, dilagano sul web perché vuole far sapere al Califfo che, in ultima istanza, il duello è con lui. A intuire quanto matura è la Casa Bianca che con il portavoce Josh Earnest dice: «Siamo molto preoccupati per la cattura di Palmira da parte di Isis, vi saranno sfide difficili».

    Qassem Suleimani Qassem Suleimani

     

    2. UNO SNODO STRATEGICO AL CENTRO DEL DESERTO CHE PUÒ DECIDERE IL DESTINO DELLA GUERRA

    Bernardo Valli per “la Repubblica”

     

    A Palmira, l’antica Tadmor, secondo la Bibbia costruita da Salomone, i combattenti del “califfato” possono scatenare la loro collera iconoclasta. Si annuncia un massacro di statue decapitate (oltre alle teste tagliate degli avversari umani), di colonne pagane sbriciolate, di immagini insozzate o cancellate con raffiche di kalashnikov.

     

    Nella città appena conquistata ci sono tante tracce preislamiche, non mancano le rovine millenarie del mondo politeista greco-romano, che quei jihadisti detestano e distruggono con picconi e dinamite quando ci si imbattono.

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    Negli ultimi giorni la marcia è stata inarrestabile. A tratti trionfale. E sinistra. Dal 17 maggio, in neppure una settimana, lo “Stato islamico” ha infatti espugnato Palmira in Siria e Ramadi in Iraq, dimostrando di controllare, almeno per il momento, territori più ampi del previsto nei due paesi in cui vorrebbe imporre il proprio potere. E cosi realizzare un vero califfato. In circa metà della Siria si muove da padrone e nella provincia sunnita di Anbar, in Iraq, occupa Ramadi, il capoluogo.

     

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    Questo nonostante gli interventi aerei degli Stati Uniti e della coalizione cui partecipano anche paesi arabi litigiosi e indecisi, e l’assistenza di tremila americani, consulenti militari o agenti dell’intelligence, non sempre ascoltati.

     

    Palmira è anzitutto un simbolo. Lo è per le sue rovine, ma anche politicamente perché a due passi c’è la prigione di Tadmur, dove il regime degli Assad, padre e figlio, vi ha fatto morire di torture e di fame migliaia di dissidenti. La ferocia di Damasco si è sfogata per decenni in quella galera. Nei paraggi ci sono campi di gas che i jihadisti sapranno sfruttare economicamente come già fanno con i pozzi di petrolio (e con le antichità che sanno vendere agli antiquari internazionali).

     

    Ribelli anti Assad contano i danni Ribelli anti Assad contano i danni

    Palmira è altresì un centro stradale di importanza strategica nel deserto siriano. Damasco è a poco più di 200 chilometri. Ramadi, in Iraq, è all’altra estremità del grande campo di battaglia in cui è impegnato lo “Stato islamico”. Il fatto che in quattro giorni le sue truppe siano state in grado di lanciare due offensive rivela una notevole capacità tattica.

     

    A Tikrit e a Kobane, la prima in Iraq la seconda in Siria, si erano dimostrate meno efficienti. In quei due assedi sono state sconfitte. Umiliate malgrado l’impegno. E l’innegabile coraggio. Ma la vera grande conquista, quella di Mosul, seconda metropoli irachena, avvenuta un anno fa, non ha mai ceduto. E il momento dell’offensiva, da tempo in programma per gli americani al fine di recuperare la città e di imprimere una svolta alla guerra, si allontana sempre di più.

    parata per la conquista di ramadi parata per la conquista di ramadi

     

    Se a Palmira l’esercito siriano ha dato prova di stanchezza, dopo quattro anni di conflitto, a Ramadi l’esercito iracheno ha dimostrato di non essere ancora in grado di contenere l’impeto dei combattenti dello “Stato islamico”. Le perplessità degli strateghi americani, se ne hanno, non sono infondate.

     

    I loro tremila addestratori, mandati nella valle del Tigri e dell’Eufrate, non possono compiere miracoli. Né i loro aerei e droni vincere una guerra senza fanteria o quasi. I jihadisti seminano spesso il terrore facendo un uso frequente di autobombe. Tra di loro non mancano i kamikaze.

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    Gran parte dei 22mila volontari stranieri, provenienti da un centinaio di paesi e individuati dagli osservatori internazionali, preferisce unirsi allo “Stato islamico”. Suscita più entusiasmo, spesso al punto da dedicarci la vita come kamikaze. Soltanto adesso gli americani avrebbero deciso di rifornire l’esercito iracheno di missili anticarro, capaci di fermare quelle vetture micidiali. Ne dovrebbero mandare un migliaio ai primi di giugno. A Ramadi, dove lo sbandamento dell’esercito è stato provocato in larga parte dalle autobombe, i missili sarebbero stati utili. Arriveranno in ritardo. Sul piano strategico la perdita di Ramadi è più grave di quella di Palmira.

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    Pone problemi di difficile soluzione. L’esercito regolare iracheno, in gran parte sciita, non ha retto all’offensiva delle autobombe. Si è ritirato in disordine, perché disorganizzato ma anche perché impacciato dal non sempre amichevole atteggiamento della popolazione sunnita, maggioritaria in quella provincia. In quanto alle scarse milizie sunnite organizzatesi nell’Anbar, benché costrette in principio a battersi contro lo “Stato islamico” anch’esso sunnita, non si sono mai impegnate sul serio.

     

    L’intreccio delle varie milizie, complicato dalla diversa appartenenza religiosa, non facilita i rapporti. Quelle sciite irachene sono sempre apparse più decise ed efficaci, ma al tempo stesso indesiderate dalla popolazione e dagli amministratori sunniti perché influenzate o controllate, o addirittura comandate dagli iraniani.

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    Per non aggravare la situazione, e non attizzare la tenzone tra sunniti e sciiti, gli americani avevano annunciato in un primo tempo che non avrebbero compiuto incursioni aeree in appoggio alle truppe di terra se tra quest’ultime ci fossero state milizie sciite. Poi, visto il disastro dell’esercito iracheno, hanno corretto il tiro affermando che avrebbero tollerato la presenza di milizie sciite purché non comandate da ufficiali iraniani. Ma la questione è ben lontana dall’essere risolta. E cosi la provincia di Anbar resta un mosaico di gruppi armati incapaci o non abbastanza decisi nel contrastare l’avanzata dallo “Stato islamico”. Ramadi è a 110 chilometri da Bagdad.

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    Gli americani sono impigliati nel conflitto tra sciiti e sunniti, in sostanza tra Iran e Arabia Saudita. Il primo è il campione degli sciiti e la seconda la protettrice dei sunniti. Il quasi accordo sul nucleare con l’Iran (si vedrà alla scadenza di fine giugno se sopravviverà ai negoziati in corso) ha inquinato la lunga, storica intesa tra Stati Uniti e Arabia Saudita. Quest’ultima partecipa con qualche aereo alla coalizione impegnata in Siria e in Iraq contro lo “Stato islamico” sunnita, ma sembra molto più preoccupata per quello che diventerà l’Iran quando non sarà più paralizzato dalle sanzioni.

     

    Cioé quando ridiventerà una potenza militare, sia pur non atomica, capace di mobilitare gli sciiti, compresi quelli che vivono nella penisola arabica. Non a caso l’Arabia Saudita è impegnata nel vicino Yemen nel tentativo di contenere la ribellione sciita, che pensa animata dall’Iran. Anche a Palmira la situazione oltre che tragica è complicata. Gli americani sono di fronte a un dilemma.

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    Se bombardano quelli del “califfato” che hanno appena conquistato la città sbaragliando l’esercito di Bashar al Assad difendono quest’ultimo, del quale Barak Obama ha chiesto la destituzione. In sostanza si schierano con un nemico. Ma è un nemico amico dell’Iran con il quale gli Stati Uniti stanno trattando. Certo gli aerei americani non possono accanirsi sulle preziose rovine di Palmira per colpire i jihadisti. Non si contribuisce alla distruzione di una città antica consacrata dall’Unesco.

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    Ma il principio, sacrosanto, crea una grande e intricata alleanza: quella tra coloro che vogliono salvare Palmira e che quindi vogliono combattere i jihadisti dello “Stato islamico” impegnati a distruggerla. Obama diventa alleato di Assad e l’Iran alleato del regno saudita. Palmira diventa un altare su cui si celebra la pace? Per ora è un luogo di micidiale confusione.

     

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