Giorgio Rutelli per https://formiche.net
copyright
Dopo oltre due anni dall’approvazione della Direttiva Copyright, è arrivato il momento di recepirla nel diritto italiano. E, come spesso succede, la normativa europea viene accolta nel nostro Paese come un meteorite piombato all’improvviso dallo spazio profondo, non un atto su cui si è detto e scritto molto.
Stavolta però sta accadendo qualcosa di particolare: una parte degli editori, categoria che dalla direttiva dovrebbe essere protetta, si sta opponendo ferocemente allo schema di decreto legislativo che armonizzerà il nostro ordinamento alle regole decise a Bruxelles. Per capire cosa sta succedendo, abbiamo parlato con Giuseppe Colangelo, docente alla Luiss e professore associato di Law and Economics all’Università della Basilicata.
Professore, come mai la stampa online (Anso), l’editoria di settore (Anes), Confindustria digitale e altre associazioni hanno scritto lettere molto preoccupate ai ministri Franceschini e Colao?
Il fenomeno è curioso, ma cela una preoccupazione concreta. La direttiva europea è stata fortemente voluta da una parte del mercato, in particolare dai grandi editori, che volevano essere remunerati per i loro contenuti condivisi sulle grandi piattaforme come Google e Facebook. Ma ora in sede di recepimento gli stessi soggetti mostrano una mancata condivisione dell’impianto o la percezione che il percorso pervicacemente sostenuto non sia necessariamente in linea con i loro obiettivi.
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Quali sono i problemi principali?
Lo schema di decreto legislativo si poggia su un presupposto errato. Il testo della direttiva europea non prevede nessun obbligo di negoziazione ma riconosce il diritto degli editori e degli autori a contrattare la licenza dei loro contenuti con le piattaforme online. Lo stesso commissario europeo Thierry Breton in risposta a un’interrogazione parlamentare ha precisato che gli Stati Membri non possono implementare l’articolo 15 della Direttiva (recepito dall’art. 5 dello schema di d.lgs.) introducendo un obbligo, perché resta il diritto degli editori a essere liberi di negoziare o meno un compenso.
Invece nel testo italiano si parla di un obbligo (con termine perentorio), si stabilisce un non meglio precisato equo compenso e, in mancanza di accordo, sarà compito dell’AgCom determinare una cifra congrua, sulla base di criteri difficili da stabilire (“equità, proporzionalità (…), storicità, posizionamento nel mercato”). Peraltro si includono anche gli operatori televisivi, che originariamente non erano previsti.
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Come capita spesso siamo stati folgorati da esterofilia. Abbiamo preso in prestito dalla recente “guerra” degli editori australiani contro Facebook e Google. In quel caso hanno introdotto un codice di condotta obbligatorio e un “arbitrato” simile al ruolo immaginato per l’AgCom. Ma in Australia non si parlava di diritto d’autore, bensì di sanare uno squilibrio di potere tra le parti. Una delle quali, ricordiamolo, era l’impero mediatico di Rupert Murdoch. Anche il Canada sta costruendo la sua disciplina in materia e lo fa criticando l’approccio europeo (legato al diritto d’autore), puntando invece a tutelare l’equilibrio economico.
Cosa pensa di questo cosiddetto “arbitrato” dell’AgCom? Secondo gli editori online e di settore, rischia di appiattire il mercato e annullare le differenze anche tecnologiche tra i diversi player, costringendo i piccoli a sostenere nuove spese (negoziare con le piattaforme non è mica gratis), compromettendo l’innovazione, la concorrenza e l’ingresso di nuovi soggetti
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Sarebbe un rompicapo applicativo. Il compenso per gli editori sarebbe stabilito in base a un pedigree fatto di criteri molto vaghi e, almeno per come sono stati scritti, che vanno a favore degli editori già consolidati con grandi newsroom. Su quale matrice algoritmica l’autorità creerebbe le sue tabelle? Si deve pagare di più chi fa più clic? Chi produce contenuti con maggior valore sociale? Nascerebbe un contenzioso infinito.
Neanche l’equo compenso è previsto dalla direttiva?
Certo, ma in quanto corrispettivo versato agli autori da parte degli editori, mica come somma che le piattaforme riconoscono agli editori.
Siamo davanti a un caso di famigerato gold plating, cioè di uno Stato che estende l’area di applicazione di una direttiva europea andando oltre il testo?
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Temo proprio di sì e spero che ci sia il tempo e il modo di correggere lo schema di decreto legislativo. Anche perché sul punto non c’è stato praticamente alcun dibattito. L’approvazione della direttiva nel 2019 fu travagliatissima, ma da allora è calato un silenzio tombale. Fino alla scadenza, in questi giorni, dei termini per il recepimento. Il gold plating è espressamente vietato anche dal Pnrr: l’Italia si è impegnata a non inserire regole diverse da quelle concordate in sede comunitaria.
L’Unione europea ha aperto una procedura d’infrazione contro il nostro Paese perché ancora non ha recepito la Direttiva Copyright.
E con noi ci sono molti altri paesi. È un atto dovuto, una procedura d’ufficio, mettiamola così. Il problema non sono i tempi ma le modalità di recepimento. Non possiamo avere una legge autoctona e totalmente diversa da quella francese, tedesca, spagnola; sarebbe in contrasto con l’obiettivo stesso della direttiva, che è l’armonizzazione dei vari ordinamenti.
D’accordo, ma il fatto che si tratta di una direttiva e non di un regolamento (che è direttamente applicabile negli Stati Membri) lascia un certo margine di discrezionalità, o no?
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Sì e no. L’Italia si è impegnata a non deviare troppo dal solco europeo, soprattutto in un caso come questo sarebbe meglio essere chiari e uniformi. C’è il rischio, direi la certezza, che la norma sarà impugnata, sia alla Corte di Giustizia Ue che alla Corte Costituzionale, visto che gli interessi in gioco sono enormi. Il governo è stato investito dal Parlamento a tutelare i diritti degli editori (etichetta ampia) e a definire meglio il concetto di breve estratto, ovvero di quale parte dell’articolo è legittimo pubblicare sulle piattaforme senza dover negoziare un compenso. Lo schema che abbiamo davanti non solo è contrario alla direttiva ma eccede la delega.
Dunque ci dovevamo limitare a trovare una definizione al “breve estratto”. I francesi si sono limitati a questo, senza introdurre obbligo di negoziazione o arbitrato.
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Sì, e hanno approvato la loro legge due mesi dopo la direttiva, per darle un’idea di un Paese che aveva interesse a regolare la questione. La discussione verte su tre elementi che possono essere liberamente riproducibili: le singole parole, gli hyperlink e il breve estratto. I primi due sono abbastanza chiari, è il terzo che necessita un intervento del legislatore. L’approccio dei francesi è qualitativo: non è breve estratto se ciò che la piattaforma riproduce sostituisce la lettura dell’articolo integrale. A livello concettuale possiamo essere d’accordo, ma a livello pratico sarà oggetto di dispute continue. Gli editori diranno che basta il titolo a “soddisfare” il lettore e dunque andrà compensata anche la pubblicazione del titolo. Ma personalmente ho difficoltà a considerare 7-8 parole in grado di sostituire un testo di diverse centinaia.
Abbiamo già visto il tentativo degli editori di farsi pagare “tutto il pagabile”, anche per la riproduzione dei titoli. Un’impostazione eccessiva?
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La legge tedesca che imponeva una “tassa sui link” è stata impugnata ed è ancora in ballo la sua legittimità dopo molti anni. In Spagna fu introdotto un obbligo di negoziazione simile a quello di cui parliamo oggi in Italia, e Google chiuse il suo servizio News davanti all’intransigenza di una parte degli editori locali, nonostante le proteste dei “piccoli” e di chi grazie alle piattaforme aveva conquistato un pubblico altrimenti impossibile da raggiungere. Chi ha studiato quel caso ha espresso un giudizio chiaro: senza la vetrina di Google, gli editori locali hanno perso il 30% di traffico. Non mi pare un precedente su cui costruire la salvezza del settore.