Malcom Pagani per il Fatto Quotidiano del 10 luglio 2016
Un Mario Adorf fuori dalla grazia di dio ne vendica l’uccisione in Milano Calibro 9: “Tu, uno come Ugo Piazza non lo uccidi a tradimento, tu, uno come Ugo Piazza non lo devi neanche toccare, tu, uno come Ugo Piazza non lo devi neanche sfiorare, tu, quando vedi uno come Ugo Piazza, il cappello ti devi levare”.
Nel film di Fernando Di Leo, proprio come nelle canzoni di Rino Gaetano, Gastone Moschin partiva per Beirut con un miliardo in tasca, ma a un passo dal godersi l’esilio, trovava la morte: “Ho interpretato tante vite, tanti personaggi, tante esistenze e tante maschere che non sarebbero mai state davvero mie neanche se avessi vissuto tre secoli. Negli anni dell’Accademia, quando sognavo esattamente questo, non credevo che avrei recitato così tanto. Ho incontrato registi insopportabili e persone deliziose, divi bizzosi e attori generosi. Mi sono divertito. Non ho rimpianti. Non so usare il computer, ma sopravvivo lo stesso”.
MOSCHIN
Marito vessato o puttaniere incallito, guardia o ladro, aguzzino fascista o monsignore, Moschin ha attraversato laicamente mezzo secolo di cinema. Germi, Bertolucci, Lizzani, Comencini, Cottafavi, Loy, Francis Ford Coppola. Ottanta film. L’ultimo, quasi vent’anni fa, nel 1997. Se si esclude la partecipazione a un documentario su Amici miei, al polimorfico Moschin, veneto del 1929, 87 anni l’8 giugno, nessuno ha chiesto di tornare.
Lo ha fatto un bel Festival che compie trent’anni, quello del cinema ritrovato di Bologna, da sempre dedicato alla valorizzazione del patrimonio cinematografico e dei nuovi restauri. Il 25 giugno, un sabato, nel giorno di inaugurazione, grazie alla Cineteca di Bologna e all’Istituto Luce verrà presentato il restauro di Signore & signori di Pietro Germi.
Moschin era il ragionier Osvaldo Bisigato impiegato infelice che si illude di sfuggire alla trame matrimoniali nel veneto bianco bigotto e curialmente vendicativo. La campagna umbra sullo sfondo. Il tempo che passa. Quello che è passato: «Nel 1929, quando sono nato a San Giovanni Lupatoto, un paese del veronese, c’era una certa crisi».
In che famiglia crebbe Gastone Moschin?
Mio padre era vetraio, mia madre casalinga. Papà era stato in Argentina a lavorare e poi era tornato. SI navigava a vista a quei tempi, senza una direzione precisa. Si stava a galla, ecco.
Il cinema era una prospettiva di lavoro realistica?
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Il cinema era pieno di gente che era arrivata a Roma, a Cinecittà, con la valigia di cartone. Persone che venivano da esistenze poverissime, da privazioni tremende e stenti come Rodolfo Sonego e che anche per questo avevano l’intelligenza intuitiva di chi aveva imparato sulla propria pelle a cavarsela.
Lei iniziò con il teatro.
Completai il regolare corso di studi teatrali e a un tratto, sceso dal palco, senza che me lo aspettassi minimamente, mi arrivarono un sacco di proposte sia di teatro che di cinema. Ero giovane e senza una lira e il cinema pagava meglio. Mi fecero leggere un copione che sarebbe diventato un film girato da Anton Giulio Maiano, si intitolava La rivale. Mi fecero un offerta. Accettai.
Persuaso che fosse la svolta?
Il cinema, anche dopo aver girato decine di film, per me ha rappresentato sempre un’opzione molto provvisoria. Oggi c’era e domani no. Arrivava questo circo, piantava le tende, restava qualche settimana e poi smontava tutto in fretta e furia.
Era difficile creare rapporti duraturi?
L’intensità dell’amicizia, anche quando c’era affinità, svaniva quando ognuno tornava alla propria vita in attesa di una nuova convocazione.
Anche con i registi?
Soprattutto con i registi, almeno per quanto mi riguarda. Cercavo di essere molto professionale, ma non mi azzardavo a essere invadente. I registi stavano sempre per conto loro, facevano da battistrada, camminavano sempre due passi avanti. Avevano sempre centinaia di cose da fare, migliaia di incombenze, preoccupazioni e assilli. Io stavo per conto mio, non disturbavo, non cercavo complicità particolari.
MOSCHIN
Nel 1959 partecipò al sequel de I soliti ignoti firmato da Nanni Loy.
Quello era un cinema che non si vergognava di mostrare come fossero davvero gli italiani dell’epoca. Un’accolita di pezzenti ingegnosi, appena usciti da una guerra devastante, pronti a qualunque espediente pur di sbarcare il lunario. Con le loro furbizie, il loro opportunismo, i loro colpi di genio. Oggi è diventato tutto più educatino, tutto edulcorato. Peccato.
Treviso, 1965, Pietro Germi la chiama per Signore & signori. Gran Prix a Cannes.
Prima le ho detto che con i registi avevo un rapporto di rispettosa distanza, ma Germi è effettivamente un’eccezione. Di Pietro sono stato amico. Mangiavamo spesso insieme, lo ascoltavo e avevo un grandissimo rispetto nei suoi confronti. Rispetto che non tutti hanno nutrito mentre lui, uno dopo l’altro, continuava a realizzare film straordinari.
C’era una ragione particolare per l’ostracismo riservato a Germi?
Certo che c’era. Germi non faceva parte delle parrocchie dell’epoca e soprattutto per questo, da cane sciolto, ha ricevuto critiche molto ingiuste.
È stato ampiamente rivalutato.
Ma non ancora trattato e studiato come meriterebbe. Luciano Vincenzoni, il grande sceneggiatore, mi aveva raccontato che gli americani dopo aver visto i film di Germi erano letteralmente impazziti. “È un genio, è un genio” dicevano. In Italia non tutti se ne erano accorti.
Germi è noto anche per la diffidenza.
Detestava critica e stampa. C’era proprio un disprezzo, una distanza, un abisso tra la filosofia di Germi e quelli che in fondo lui considerava dei parassiti. Un giorno, di fronte a un giornalista televisivo molto insistente che voleva intervistarlo a fine pasto allungando il microfono con le mani sudate e protese, Germi con faccia schifata si fece dare un limone.
E a che gli serviva il limone?
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A pulirsi le mani che si era appena lavato e che strofinò vigorosamente passando il limone su un tovagliolo. Germi era un maniaco dell’igiene, ma ovviamente quel siparietto sottintendeva anche molto altro.
Lei lavorò anche con Marco Ferreri ne L’harem.
Non ho capito il copione, non ho capito il film, non ho capito cosa il regista volesse da me e alla fine non ho mai capito neanche Ferreri. Per me era un mistero tutto da decifrare. Vedevo la barba o oltre la barba un signore piccolo che non sapevo proprio come leggere.
Bertolucci che le offrì un ruolo ne Il Conformista era della stessa pasta di Ferreri?
Non direi proprio. Bertolucci fu bravissimo a gestire un film scivoloso, difficile e pieno di virtuosismi. Certo, c’era dietro anche lo straordinario lavoro di Vittorio Storaro, ma Il Conformista rimane un bellissimo film di un talento allora molto giovane. Girammo in posti meravigliosi di Parigi che oggi non esistono più. In quarant’anni non è cambiato soltanto il cinema, ma anche la geografia industriale delle città in cui i film venivano girati.
Dei poliziotteschi degli anni 70 che ricordo ha?
Venivano girati alla garibaldina, ma alcuni, ad esempio quelli di Stelvio Massi, non erano per niente male. Quello di Di Leo, poi, Milano Calibro 9, mi lasci dire, è quasi un capolavoro. Ma a quel tempo il cinema italiano era importante e nessuno si chinava su prodotti che erano bollati come minori a prescindere. Ci sono stati veri e propri maestri massacrati dalle critiche. Non andavano di moda perché il cinema è anche questo: una moda.
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In quegli anni recitò per Francis Ford Coppola.
C’era un’enorme distanza tra la mastodontica macchina cinematografica americana e la tranquilla semplicità di uno come Coppola. Non l’ho mai visto arrabbiato, mai nervoso. A volte dirigeva con suo figlio sulle spalle, a cavalcioni. Sorrideva molto, era gentile.
In Amici Miei, per il ruolo di Rambaldo Melandri, l’aveva voluta proprio Pietro Germi.
Mi telefonò, ci vedemmo e fissammo l’appuntamento sul set. Germi morì a pochi giorni dalle riprese e lo sostituì Monicelli.
Adolfo Celi, Philippe Noiret, Duilio Del Prete, Ugo Tognazzi.
Di Ugo era un fan fin da ragazzo quando andavo a vederlo esibirsi all’Ambrosiano di Milano e dove armato di strani cappelli poggiati sulla testa, Tognazzi faceva numeri straordinari. Era moderno e non aveva nulla del comico tradizionale. Quando ci incontrammo sul set di Amici miei gli ricordai quei tempi intonando alcune delle canzoni che interpretava all’epoca: “Ma che memoria hai?”. Era colpito.
Proprio come Germi, fu sottovalutato anche il Tognazzi costretto a riparare in Francia per recitare Moliere a teatro?
PIETRO GERMI
Ma no, lì deve mettere la tara alle meravigliose balle che Ugo amava raccontare. A fare Moliere in Francia volle andare proprio Ugo. C’era una ragazza francese che gli piaceva molto e si fece rapire volentieri dall’ipotesi di raggiungerla.
Ancora su Amici miei: l’ha mai rivisto?
Almeno un paio di volte e non c’è occasione in cui non mi sia sembrato un film più malinconico che ilare. Con Germi probabilmente Amici Miei sarebbe stato ancor più crepuscolare. Ma in tutto il film di Monicelli, comunque, si respira questa incombente sensazione di addio, di tempo che svanisce, di un mondo che si allontana e non promette ritorni: fin dal titolo. Amici miei è già un congedo. C’è il domani con le sue incognite e nessuno che sappia dire come sarà davvero.
Malinconica è la scena del Luna park.
La girammo quasi per caso perché eravamo in ritardo e Monicelli che con le maestranze aveva un rapporto filiale, piuttosto che superare le ore concordate di lavorazione si sarebbe fatto tagliare un dito. Di solito Mario dava il via libera per la pausa pranzo con un quarto d’ora d’anticipo: “Così-diceva-mangiano con calma e non si strozzano.
Cambiò in corso d’opera alcune battute del copione?
Mario Monicelli
Pochissime, quasi niente. Era già tutto scritto e sul set venne inventato poco. Solo Tognazzi aveva le sue variazioni personali dal copione, ma Ugo era Ugo.
Avrebbe mai creduto che Amici Miei potesse sopravvivere ai decenni?
Lì per lì non te ne rendi conto quasi mai. E comunque no, nessuno si era reso conto di quante cose profonde rivelasse quella commedia.
Negli occhi rimane la scena degli schiaffi alla stazione.
Monicelli intimò di darli con forza. Le comparse rimasero sorprese. Quando i finti viaggiatori tonarono indietro ci fu una specie di insurrezione. Volevano picchiare i delegati di produzione e li volevano picchiare sul serio.
C’era l’impronta di un regista che ha deciso di andarsene prima di non poterlo più decidere.
steno con mario monicelli foto mostra andrea arriga
La morte di Mario mi ha provocato dolore, ma non mi ha sorpreso per niente. Era preparato a tutto Mario e tutto aveva visto. Parlava della vita degli uomini con un distacco che non ho mai ritrovato in nessun altro.
Era cinismo?
Una forma ibrida di cinismo, un cinismo tutto toscano. Aveva delle sue durezze, ma in fondo era tenero, amabile e persino docile.
Perché lei si è ritirato in Umbria?
C’era la pace e mia moglie che non c’è più, più come hobby che come vera e propria attività, gestiva un maneggio. Venni allora e qui sono rimasto.
Il suo ultimo film è Porzus di Renzo Martinelli. Perché ha deciso di ritirarsi dalle scene?
Non mi sono ritirato, ma nessuno si ricorda di far lavorare gli attori solo perché hanno avuto un lontano passato. Qualcosa mi hanno proposto, ma non c’era niente che mi corrispondesse. Sono comunque contento. Avevo un sogno e l’ho realizzato, non credo capiti a tutti. Forse avrei potuto fare di più e fare meglio, ma non dipendeva soltanto da me.
UGO TOGNAZZI IN COSTA SMERALDA FOTO DI NINO DI SALVO
Le dispiace di non avere più un set su cui esprimersi?
Lo trovo del tutto naturale. Si nasce, si vive e si muore. Più o meno in silenzio.
marco ferreri