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    L'ULTIMA TELEFONATA DI MARIA GRAZIA CUTULI - IL RICORDO DI CARLO VERDELLI: ''SONO PASSATI 19 ANNI, MARIA GRAZIA, MA A ME CONTINUA A SEMBRARE CHE QUELLA CHIAMATA L’ABBIAMO FATTA OGGI. È STATA L’ULTIMA VOLTA CHE CI SIAMO SENTITI, PRIMA CHE TI SPARASSERO ALLA SCHIENA IN AFGHANISTAN, PRIMA GUERRA DOPO LE TORRI GEMELLE, PRIMA TUA TRASFERTA IMPORTANTE DA INVIATA DEL CORRIERE. E L'ULTIMA COSA CHE MI CHIEDESTI FU…''


     
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    Carlo Verdelli per il ''Corriere della Sera''

     

    MARIA GRAZIA CUTULI MARIA GRAZIA CUTULI

    È passato così tanto tempo, Maria Grazia, ma a me continua a sembrare che quella telefonata l’abbiamo fatta oggi. È stata l’ultima volta che ci siamo sentiti, prima che ti sparassero alla schiena ai bordi di una strada che da Jalalabad doveva portarti a Kabul, Afghanistan, prima guerra dopo le Torri Gemelle, prima tua trasferta importante da inviata del Corriere della Sera. Eri appena riuscita a entrare in una madrasa e a raccontare, unica occidentale, il clima acceso che in quei giorni di furore agitava le scuole islamiche. Ti chiamai per complimentarmi ma anche per concordare il tuo ritorno in Italia. Eri lì già da un paio di settimane, un collega era pronto a partire per sostituirti. Lo scontro con i talebani sarebbe andato avanti per mesi e ci eravamo organizzati con un sistema di staffette. Cominciai col chiederti come stavi.

     

    «Benissimo. Sto lavorando a una storia forte, un deposito di gas nervino in una base di Osama bin Laden».

    «E quando l’avresti pronta?».

    «Per adesso è solo una traccia, ho ancora bisogno di tempo. Ma ce la faccio, vedrai che ce la faccio».

    «Stai molto attenta, Maria Grazia, ma tanto. Comunque passa gli appunti a chi ti darà il cambio. Hai il volo lunedì, giusto?».

     

    carlo verdelli carlo verdelli

    Ci fu un silenzio lungo, come se fosse caduta la linea.

    «Maria Grazia, ci sei ancora? Mi senti?»

    «Sì, ti sento, ma devo chiederti una cosa».

    «Dimmi pure»

    «Ho compiuto gli anni, sai. Trentanove».

    «Allora auguri. Torna che ti concedi una festa come si deve».

    «È proprio questo il punto. Ecco, mi piacerebbe un regalo, non so come dirtelo diversamente. Sì, un regalo».

     

    «E cioè?».

    MARIA GRAZIA CUTULI MARIA GRAZIA CUTULI

    «Lasciatemi qui ancora un po’, cancellate il volo. Non posso venire via proprio adesso. Ti prego, un paio di settimane ancora».

    «Non se ne parla. Hai fatto la tua parte, ora tocca a un altro. Quando è il momento, ripartirai per Kabul».

     

    «Perdonami se insisto ma è importantissimo per me. Dammi fiducia. Il regalo per il mio compleanno. Non me ne importa niente della festa, non farò nessuna festa. Fatemi seguire quella pista. Sento che è giusta, sarà un gran colpo per il giornale. Dai, cazzo, per favore».

     

    Conoscevo Maria Grazia Cutuli da quando in Mondadori, prima a Centocose e poi a Epoca, aveva cominciato a mostrare un’insofferenza crescente per tutto ciò che le impediva di dedicarsi alla passione unica che l’accendeva: precipitarsi dove la terra brucia, capire i fuochi, raccontare i tormenti della gente, le ferite, i dolori. Bosnia, Ruanda, Cambogia, Iraq. Se non ce la mandavano, era capace di prendersi le ferie e di andarci a spese proprie.

     

    MARIA GRAZIA CUTULI MARIA GRAZIA CUTULI

    Una specie di febbre priva di vaccino, che lei per prima non si sognava di curare e che anzi coltivava, aumentando le esperienze sul campo e raffinando le conoscenze. Quando nel 1997 arrivò al Corriere, con una serie di contratti a tempo, vita e mestiere già coincidevano fino a sovrapporsi, a confondersi. Che importanza poteva avere un compleanno nella sua Catania, o con gli amici di Milano dove ormai viveva, rispetto ad essere sulla scena madre del mondo, in quel novembre 2001? Esserci non tanto per dire di esserci stata. Esserci per onorare la presenza con un più di giornalismo, e quindi con un più di rischio.

     

    Hai ottenuto il regalo, Maria Grazia. L’ultimo articolo che hai scritto è stato proprio quello sul gas nervino. Poi una banda di assassini con lunghe tuniche, barbe e turbanti ti ha catturata in un agguato insieme ad altri tre colleghi, nessuno italiano. Stavi sulla macchina che guidava una colonna di reporter e fotografi. Vi hanno fatti scendere. Pare che tu sia stata la prima ad essere uccisa.

     

    A distanza di 19 anni, come se ancora fosse oggi, non mi perdono di averti detto sì l’ultima volta che ci siamo sentiti per telefono.

     

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