Gabriele Rosana per “il Messaggero”
MICROCHIP EUROPA
La dipendenza si paga a caro prezzo. È vero per il gas e per il grano, ostaggio della crisi al confine tra Russia e Ucraina, e lo è in maniera ancor più dirompente per i semiconduttori, i microcomponenti ad alta tecnologia che fanno muovere smartphone e missili della difesa, pale eoliche e auto elettriche al centro di una crisi globale delle forniture aggravata dalla pandemia.
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Indispensabili per accompagnare la transizione verde e digitale - che è il mantra di Bruxelles per la ripresa - i microchip rappresentano un comparto chiave in cui l'Europa ha deciso di imboccare la strada dell'autonomia strategica, visto che ad oggi dipende pesantemente da Paesi terzi, in particolare asiatici. Per questa ragione ieri la Commissione europea ha svelato il suo «European Chips Act», il pacchetto dal valore di oltre 43 miliardi di euro, tra investimenti pubblici e privati, europei e nazionali, per raddoppiare la quota di mercato globale Ue nella produzione di chip entro il 2030.
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Un volume più o meno pari a quello messo in campo dagli Stati Uniti per sostenere l'industria americana e che potrebbe portare una megafonderia anche in Italia. L'obiettivo di Bruxelles, è passare dall'attuale 9% al 20% in una manciata di anni, ma siccome in questo periodo la domanda mondiale è data in costante crescita, «per noi ciò significa che dovremo quadruplicare i nostri sforzi», ha chiarito la presidente della Commissione Ursula von der Leyen presentando il provvedimento «che vuole trasformare l'Unione in leader nel settore.
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L'Europa è il continente in cui sono iniziate tutte le rivoluzioni industriali e può essere la patria anche della prossima». La porta rimane aperta ai partenariati, «dagli Usa al Giappone», ma «la chiave del nostro successo sta negli innovatori europei». La corsa all'indipendenza dalle forniture asiatiche ha anzitutto un risvolto geopolitico: punta di fatto a evitare che una escalation della crisi tra Taiwan (il primo produttore al mondo di microchip) e la Cina possa tradursi nel giro di poche settimana in un blocco delle attività per le aziende europee.
crisi microchip
Ma il dossier si incrocia anche con la sovranità tecnologica cara al commissario Thierry Breton, l'uomo dietro la proposta, e con il rafforzamento della politica industriale dell'Ue. Come mette in luce uno studio realizzato di recente da Kearney, infatti, non sono da sottovalutare le ricadute positive dell'iniziativa sull'economia Ue: una megafab genererebbe circa 3mila posti di lavoro per professionisti altamente qualificati e fino a 17mila posti aggiuntivi nell'economia generale.
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La creazione del maxi-polo Ue dei chip ha già attirato l'attenzione delle multinazionali della microelettronica (dall'americana Intel alla taiwanese Tsmc fino alla franco-italiana StMicroelectronics), pronte a dirigere nuovi investimenti in Europa.
E anche quella dei Paesi membri che si candidano a ospitare le nuove fabbriche e a mobilitare una quota importante di aiuti di Stato (accessibili anche da aziende non Ue) a sostegno della creazione degli impianti produttivi, resa possibile dall'ammorbidimento delle regole dell'Antitrust europeo in materia di semiconduttori previsto dal Chips Act, il più imponente piano di sussidi pubblici mai stanziato in Europa a eccezione della politica agricola comune.
SILICON SAXONY GERMANIA
LE MOSSE
La Germania ha già candidato la sua Silicon Saxony, intessuto contatti con i principali produttori mondiali e corre da favorita, ma anche Italia, Francia e Paesi Bassi - oltre al Belgio che è già centro di ricerca d'eccellenza - hanno messo gli occhi sulle possibilità offerte dalla rivoluzione Ue sui chip.
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Il governo Draghi ha avviato da tempo i contatti con Intel, anche se gli americani avrebbero per ora manifestato l'intenzione di aprire nel nostro Paese solo un polo secondario dedicato all'assemblaggio. Dalla Brianza alla Sicilia - regioni dove sono già attivi impianti di StMicroelectronics -, però, il maxi-piano Ue ha un raggio d'azione che può interessare tutto il Paese.