Paolo Beltramin per www.corriere.it/sette
il caso thomas quick
L’uomo che un tempo si faceva chiamare Thomas Quick, noto come il più feroce serial killer d’Europa, oggi è un libero cittadino. Ha una nuova identità, vive in un Paese straniero dove nessuno lo può riconoscere. Arrestato nel 1991, ha confessato 39 omicidi compiuti nell’arco di vent’anni; per otto di questi era stato condannato in via definitiva, da sei tribunali diversi. Oggi cammina tranquillo per la strada, scatta fotografie di panorami che pubblica in un profilo chiuso su Instagram. Giura: «Da anni non prendo più stupefacenti né psicofarmaci».
Lui che un tempo adorava specchiarsi nelle prime pagine dei giornali, adesso non vuole più parlare con nessuno della lunga stagione in cui è stato Thomas Quick. Accetta di rispondere soltanto a una domanda diretta. Si sente in colpa con i familiari delle vittime? «Rispetto il loro dolore, sono profondamente dispiaciuto per quanto è successo. In questa storia, però, sono una vittima anch’io». E in qualche modo ha ragione. Perché questa non è soltanto la storia di un uomo completamente pazzo, ma di un’ingiustizia ancora più grande della sua follia.
Il nome scelto in un ospedale psichiatrico
il libro di rastam sul caso quick
Quando tutto cominciò Thomas Quick è il nome che si era scelto quando era entrato, a 41 anni, nella clinica di Säter, ospedale psichiatrico modello, 200 chilometri a nord di Stoccolma. Era stato fermato dalla polizia dopo una rapina in banca, travestito da Babbo Natale.
Gli servivano i soldi per comprarsi la droga, ai cassieri aveva urlato: «Ho l’Aids, mi resta poco da vivere, non ho niente da perdere». Ma non era vero. Sono autentici invece i precedenti per spaccio e molestie, oltre al trauma di un compagno morto impiccato. Di fronte alle sue suppliche, il giudice gli aveva concesso il ricovero al posto del carcere. Quick, come il cognome della madre. Thomas, come il nome della sua prima vittima, un quattordicenne che dirà di aver violentato e ucciso quando aveva la sua stessa età, omicidio per il quale non verrà mai processato: la confessione arriva a termini di prescrizione già scaduti. All’anagrafe invece è Sture Bergwall, figlio di genitori ferventi pentecostali, ormai scomparsi.
«Ho ucciso un ragazzino e l’ho mangiato»
therese johannesen
I primi mesi a Säter vive come un fantasma, fino a quando comincia a ricordare — e a raccontare — le molestie subite da bambino, conquistandosi l’attenzione degli psichiatri. Suo padre lo aveva violentato più volte davanti agli occhi della madre e un giorno aveva pure ucciso un suo fratellino, Simon, e fatto sparire il cadavere. Nei registri però non c’è traccia di nessun Simon Bergwall, mentre i sei fratelli di Sture raccontano di aver passato un’infanzia senza ombre.
A inizio 1993, durante un’uscita dalla clinica per andare a una lezione di nuoto, Quick si rivolge all’infermiera che lo accompagna: «Cosa succederebbe se confessassi qualcosa di veramente terribile?». Il primo omicidio che svela è la soluzione di uno dei grandi misteri svedesi, la scomparsa nel 1980 di Johan Asplund, 11 anni, il cui cadavere non era mai stato trovato. Le parti smembrate del corpo le ha sepolte in luoghi diversi, alcune le ha mangiate.
In jet privato per cercare i resti di Therese
Therese Johannesen, 9 anni, l’ha uccisa nel 1988 a Drammen, in Norvegia, fracassandole il cranio contro una pietra. Poi l’ha fatta a pezzi. L’assassino viene portato sul luogo del delitto con un jet privato, sperando che riesca a localizzare i resti della piccola. I telegiornali lo mostrano che vaga tra gli alberi, circondato da magistrati, psicoterapeuti e giornalisti.
A un certo punto indica un laghetto semi ghiacciato: la polizia impiega due settimane a setacciarlo — 35 milioni di litri d’acqua pompati e filtrati due volte — senza trovare nulla. Poco lontano, però, viene individuato un piccolissimo frammento, di appena 0,5 millimetri, che al processo un esperto certificherà essere un osso appartenente a un essere umano tra i 5 e i 15 anni.
Le cronache del «mostro di Svezia»: 50 mila pagine
A ogni confessione seguono nuove spedizioni: in Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimarca. Il caso finisce sui giornali di tutto il mondo. «Il mostro di Svezia gela la polizia», è il titolo di un articolo del Corriere della Sera nel 1996 a proposito del «più crudele omicida seriale della storia europea». Viene descritto così: «Quick è capace di nascondersi dietro una facciata mansueta per poi colpire con fredda ferocia. Quando egli conduce poliziotti e giudici nei posti in cui afferma di aver ucciso o sepolto qualcuno, sembra quasi assente, distratto, confuso, come se la memoria gli si fosse annebbiata o come se l’assassino fosse un altro».
Quello che non torna Le incongruenze nelle sue ricostruzioni, pur numerose, non turbano gli inquirenti. E neppure l’unicità assoluta di questo serial killer logorroico che in 50 mila pagine di deposizioni ha svelato di aver violentato e ucciso indifferentemente bambini e adulti, uomini e donne, usando ogni volta un modus operandi diverso, ma sempre senza lasciare tracce e senza farsi vedere da testimoni.
jenny kuttim
I processi e le condanne, poi i primi dubbi
Uno dopo l’altro arrivano i processi e le condanne: per l’omicidio dei piccoli Johan e Therese; di Charles Zelmanovits, 15 anni, che nel lontano 1976 Quick aveva caricato in macchina a Piteå, e del cui corpo senza vita aveva continuato ad abusare; della diciassettenne Trine Jensen, violentata e strozzata con la tracolla della borsa nel 1981, a Oslo, come la ventitreenne prostituta Gry Storvik, quattro anni dopo; dei turisti olandesi Marinus e Janny Stegehuis, nel 1984, trafitti da decine di pugnalate attraverso il telo della tenda nella quale campeggiavano;
e infine di Yenon Levi, ventiquattrenne studente israeliano in visita ad alcuni parenti nel 1988, rapito nei pressi di una stazione e ammazzato in una foresta della contea svedese di Dalarna. Sembra solo l’inizio: gli inquirenti hanno un’altra trentina di casi da verificare. Tra i parenti delle vittime e i cronisti che seguono i processi, però, qualcuno nutre dei dubbi.
Sette anni di mutismo, ma non è Hannibal Lecter
il caso thomas quick 8
A parte le confessioni, ci sono solo prove indiziarie. Quick è così infastidito dal fatto che la sua colpevolezza sia messa in discussione, che nel 2001 compie una protesta eclatante: «Faccio una pausa, forse per il resto della mia vita». E si riprende il suo nome, Sture Bergwall. Non collaborerà più con i magistrati, stufo di affrontare gli scettici, «con tutto quello che ho combattuto per l’accuratezza nel descrivere i crimini che ho commesso».
Passano 7 anni nei quali Bergwall, sempre rinchiuso nella clinica di Säter, non rivolge la parola a nessuno. Il giornalista Hannes Råstam è stupito e agitato quando finalmente riesce a ottenere un incontro con lui, il 2 giugno 2008. Mentre passa i controlli di sicurezza e percorre i lunghi corridoi dell’ospedale, sembra un po’ come Jodie Foster prima del faccia a faccia con Anthony Hopkins nel Silenzio degli Innocenti. Anche il suo interlocutore si rivelerà affabile e cordiale. Ma più che la versione svedese di Hannibal Lecter, gli sembrerà soltanto un povero pazzo.
Rivedere l’inchiesta: un lavoro colossale
Nei mesi successivi Råstam si butta a capofitto nel caso. Assume una collaboratrice di 26 anni, Jenny Küttim, per farsi dare una mano in un colossale lavoro di revisione dell’inchiesta. «Abbiamo visto tutti i filmati degli interrogatori, abbiamo studiato gli atti dei processi e le cartelle cliniche» racconta lei a 7. «Poi siamo ripartiti da zero e abbiamo verificato ogni elemento.
Quello che oggi si dice fact checking». A settembre Råstam torna da Bergwall, ormai persuaso che il serial killer Thomas Quick sia soltanto un’invenzione, e lo travolge di domande. Il pluricondannato lo guarda in silenzio, poi gli chiede: «Se non fossi stato io a commettere quegli omicidi, cosa dovrei fare?». Nel dicembre 2008 la tv svedese trasmette un documentario di Råstam che lascia il Paese senza parole. Il giornalista si mette al lavoro su un libro che diventerà un bestseller mondiale: Quick. Il caso del serial killer sbagliato, pubblicato in Italia da Rizzoli. Non farà a tempo a vedere i frutti del suo lavoro: muore il giorno dopo aver consegnato il manoscritto, per un tumore al pancreas.
il caso thomas quick 11
Grazie ad Hannes, annullate tutte le condanne
«Hannes è il vero eroe di questa storia» lo ricorda Küttim «Oltre che un grande giornalista era un musicista, adorava la vita e le persone. Ha lasciato una moglie e tre bambini che amava più di ogni cosa, anche se negli ultimi anni aveva dedicato tutto il suo tempo a questa inchiesta. Sapeva di aver fatto lo scoop della vita, ma a lui interessava soltanto che venisse fatta giustizia». Negli anni successivi, una dopo l’altra, tutte le condanne di Bergwall vengono annullate.
A 23 anni dalla fallita rapina in banca, nel 2014 esce dall’ospedale psichiatrico da uomo libero. Già nel 1992, dopo le prime sedute in cui aveva cambiato nome e si era inventato le molestie infantili, Thomas Quick era stato trasferito nel celebre “reparto 36”. Gestito da un gruppo di psicologi e psicanalisti d’avanguardia, aveva il suo faro nella carismatica Margit Norell, morta nel 2005 a 90 anni, ancora persuasa della colpevolezza del suo celebre paziente, e grande sostenitrice della “recovered memory therapy”. In sostanza — era il credo di quella che i detrattori definivano “la setta” — i criminali non farebbero che ricreare gli abusi subiti da piccoli e poi cancellati.
Le colpe degli psichiatri di Säter: una «setta»
hannes restam 1
«Le intuizioni del primo Freud venivano fatte passare per scienza esatta» spiega Küttim «Bergwall non riusciva ad accettare la sua omosessualità? Secondo i brillanti dottori di Säter l’unica spiegazione possibile erano le violenze paterne. Loro pensavano di dover recuperare i ricordi traumatici rimossi dal paziente, ma in realtà lo stimolavano a produrre memorie completamente false». Il guaio ulteriore è che per farlo parlare, i medici lo imbottivano di medicinali dai pesanti effetti collaterali. «Le droghe erano il premio per le sue confessioni.
Capito questo meccanismo, tutto è diventato chiaro», ricorda Küttim. «Più raccontavo più benzodiazepine mi davano», ha confermato lo stesso Quick. «E più ne ingurgitavo, più cose avevo da raccontare». Ma da dove arrivavano tutte le informazioni con cui un malato psichiatrico aveva beffato per anni polizia e magistrati? Dalla biblioteca nazionale di Stoccolma, alla quale aveva accesso liberamente e dove amava consultare i vecchi quotidiani. Il resto lo desumeva dal modo in cui gli venivano formulate le domande («sapevo che mi bastava ascoltare con attenzione»), e qualche nota pulp la prendeva da romanzi come American Psycho, che proprio i medici incoraggiavano a leggere per ricordare meglio.
L’unica prova materiale, un abbaglio
Quanto all’unica prova materiale di tutta l’inchiesta, il microscopico frammento di osso umano trovato vicino a un “luogo del delitto”, una nuova perizia ha svelato il mistero: in realtà non era un tessuto organico ma una scheggia di legno misto a colla. I familiari di tutte le vittime che Thomas Quick ha confessato di aver ucciso oggi aspettano ancora di conoscere il vero colpevole. Con il tempo che è trascorso, le speranze ormai sono ridotte al minimo. Solo un caso è stato risolto, quello di una coppia di rifugiati somali, dati per dispersi da anni, che Quick aveva raccontato di aver trucidato insieme e poi mangiato. I due, si è scoperto, sono vivi e vegeti in un altro Paese.
il caso thomas quick 1