Pietro Minto per “La Lettura - il Corriere della Sera”
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Nel settembre 2013 Facebook annunciò una novità: avrebbe reso più semplice caricare e visualizzare video nel social network, una decisione a cui seguirono nel giro di poche settimane i fatti: milioni di bacheche finirono invase da video in autoroll (che si muovono nei nostri schermi muti), in attesa di un semplice click per attivare anche l’audio.
La scelta ha cambiato il nostro rapporto con il sito, permettendo a molti utenti di caricare video e vederli diventare «virali» in poche ore — con migliaia o milioni di visualizzazioni — anche grazie all’algoritmo del social network, modificato per favorire la comparsa e diffusione di questi filmati.
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Ed è proprio il verbo «favorire» il problema: secondo una ricerca condotta da Sonja Foust della Duke University, i numeri parlano chiaro: mediamente un video di YouTube linkato su Facebook raggiunge molte meno persone di uno caricato direttamente sullo stesso Facebook. In un caso limite, una clip che aveva raggiunto 19.984 persone nel primo caso era arrivata a 931.328 utenti una volta pubblicata attraverso Facebook.
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Una tendenza che si riscontra nei numeri: secondo i dati del social network, nel primo trimestre del 2015 i video sul social network hanno raccolto otto miliardi di visualizzazioni al giorno, il 75% dei quali da apparecchi mobile . Sono cifre pesanti, in grado di influenzare l’industria e modificare le abitudini del pubblico e dei creatori di video.
Nonostante questo, però, non tutti credono alle favole di Mark Zuckerberg. Tra i ribelli ci sono alcuni YouTuber di successo che hanno denunciato nelle ultime settimane il cinismo con cui Facebook è entrato nel business dei video. C’erano voluti anni per creare un modello di business all’interno di YouTube (i creatori caricano i video, accettano le pubblicità del sito e dividono il ricavato con l’azienda) che, per quanto discutibile, desse una minima sicurezza economica ai creatori di video.
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Ora Facebook — questa è l’accusa — ha stravolto tutto, creando un Far West autoriale in cui chiunque può scaricare un video da YouTube e postarlo su Facebook, raggiungendo un pubblico enorme senza aver fatto nulla. Recentemente Hank Green, star del canale VlogBrothers assieme al fratello John, ha scritto un lungo j’accuse su «Medium» in cui si è concentrato soprattutto sulla bizzarra definizione di «visualizzazione» che il social network sembra adottare:
«Facebook conta una visualizzazione dopo tre secondi, che l’utente abbia attivato l’audio o meno», spiega Green, riferendosi al citato autoroll . «In quel momento il 90% del pubblico sta ancora guardando un’animazione muta.
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Dopo 30 secondi, ovvero quando si può parlare di vera audience, solo il 20% guarda ancora il video. Il risultato è che si conta il 90% del totale, ma solo il 20% sta davvero guardando il filmato». È un dettaglio notevole se si pensa che YouTube, il leader del settore, conta la riproduzione solo dopo 30 secondi dal play.
Cosa si nasconde dietro questa ridefinizione della parola view (visualizzazione)? Un gioco di potere tra due superpotenze digitali, Facebook e Google (proprietaria di YouTube), per il controllo del mondo dei video, particolarmente amato dagli inserzionisti e quindi basilare per entrambe le aziende.
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Secondo «Forbes», entro la fine dell’anno, YouTube avrà raccolto tre milioni di miliardi di visualizzazioni contro i due di Facebook. Non male, ma è preoccupante che quest’ultimo stia ridefinendo parametri industriali e sfruttando la potenza del suo algoritmo per limitare la concorrenza.
Ancora peggio, secondo Hank Green, il social network sta rendendo più torbida l’acqua in cui — a difficoltà — artisti e YouTuber vivono e lavorano. Due settimane fa In A Nutshell, canale specializzato in animazioni su complessi concetti scientifici, si è occupato di un altro fronte aperto in questa guerra: il fatto che 275 dei video più visti su Facebook nel primo trimestre del 2015 fossero stati prelevati dalla piattaforma video.
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«Solo chi li ha prelevati e Facebook stesso ne traggono profitto», spiegano, sottolineando quanto sia difficile per il creatore del contenuto denunciare il fatto a Facebook, chiedendo la rimozione del filmato. YouTube ha una serie di regole a difesa del diritto d’autore, assenti sul social network, finora occupato a conquistare margini di mercato.
Nonostante le mosse di Menlo Park, c’è chi richiama alla cautela nel determinare il «colpevole» in tutto ciò: «YouTube non ha fatto niente per conservare quelli che fino a tre anni fa creavano e mettevano contenuti praticamente gratis», spiega a «la Lettura» Luigi Di Capua del gruppo The Pills, autori di video di successo che hanno cominciato a pubblicare i lavori direttamente su Facebook.
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Zuckerberg, invece, garantisce un’alternativa, «visto che se sei abbastanza simpatico e determinato, in poco tempo puoi far lievitare i like della tua pagina e poi, in un secondo momento, guadagnare vendendo alle aziende post o video brandizzati».
E la pubblicità su cui YouTube ha fondato la sua esistenza? «Per appena 2 euro ogni mille visualizzazioni il guadagno è talmente irrisorio che noi abbiamo deciso di non monetizzare più niente togliendo il pre-roll dai nostri video», conclude Di Capua, riferendosi alla pubblicità che compare prima dei video e può essere interrotta dopo cinque secondi.
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Per evitare la deriva, YouTube ha stretto alleanze con alcuni importanti «creatori» simili a un contratto di esclusiva — «restate con noi, vi pagheremo». E se lo può permettere, visto che è il secondo motore di ricerca del mondo (dopo Google) e la patria dei video «da cercare».
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Tra i colpi dei due giganti, ecco dunque le vere vittime di questa guerra: gli utenti e, soprattutto, gli autori dei video, ancora alla ricerca di un modello che li ripaghi del proprio lavoro.
@pietrominto
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