Estratto dell’articolo di Fabiana Giacomotti per “il Foglio”
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La sintesi migliore del fenomeno “crisi dell’influencer marketing” […] è di Giovanna Ferrero, responsabile della strategia digitale del Salone del Mobile ed ex manager di Havas e WPP. Quando le chiedo perché un sistema che per dieci anni è cresciuto senza sosta e che fino a tre mesi fa in Italia fatturava circa trecento milioni di euro abbia iniziato a mostrare crepe profonde e vere e proprie rivolte social, […] risponde che TikTok ha cambiato fin troppo le carte di una tavola già incerta sulle gambe, che gli algoritmi delle piattaforme cambiano così rapidamente e in modo così imprevedibile da imporre un costante adeguamento dei contenuti, che non tutti i settori possono beneficiare del valore dei creator e la moda di alta gamma è sicuramente uno di questi e che, in fondo, l’unico modo per verificare davvero il tasso di conversione di uno di questi creator sia di associarlo a un codice sconto o a un link di verifica.
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Tolto l’aspetto non secondario di un modello mediatico dove […] non è il contenitore a dettare legge ma il distributore, che sarebbe come se l’edicolante sotto casa determinasse i contenuti di questo articolo, se potessimo riportare in vita i primi pubblicitari del Diciannovesimo secolo, […] non potrebbero che concordare con Ferrero: dopotutto i coupon inseriti nei giornali sono un espediente pubblicitario coevo alle prime pubblicità di “immagine” […], dunque perché stupirsi se al posto di una rivista dalla quale ritagliare un talloncino da inviare alternativamente all’azienda, al negoziante più vicino o alla rivista stessa si inserisce su Instagram o su TikTok il codice fornito da un coupon umano, che oltre ad offrire lo sconto parla, si muove, ride e intrattiene.
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Lo scorso aprile, questa trentenne determinatissima ha provato a tirare fuori il Salone del Mobile, gloria internazionale, dalle secche in cui si era incagliata dopo che vent’anni di successi del Fuorisalone avevano instillato nei meno accorti, che sono la maggioranza, la convinzione che la Design Week corrispondesse a una settimana di spumantini gratuiti e happening mangerecci nei negozi dove mai oserebbero avventurarsi, accompagnati per di più da una messe di comode sedie sulle quali accomodarsi per intere serate.
Vivendo in una delle zone del Fuorisalone, pochi mesi fa avevo trovato appoggiato al muretto che affianca il portone di casa un gruppo di ragazzi che spuntava dalla mappa del centro città i punti degli “aperitivi più fighi di stasera”. Interesse per la mobilia? Quale mobilia?
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[…] Durante le ultime sfilate maschili, Domenico Dolce e Stefano Gabbana, che fra il 2016 e il 2017 furono fra i primi ad invitare un numero considerevole di influencer alle proprie sfilate, contando tanto sulle loro potenzialità di moltiplicazione dell’immagine quanto sull’appetibilità della notizia presso i media tradizionali, invidiosissimi e irritati per la progressiva sostituzione ma professionali al punto di registrare puntualmente l’ascesa di un fenomeno che in apparenza stava determinando la loro estinzione, hanno detto a Repubblica di aver eliminato buona parte della compagine di content creator ed esibizionisti a vario titolo dalle proprie liste, per via di una scarsa rilevanza non solo numerica del loro impatto sui follower, veri o presunti (“pochissimi lo sono”), ma per la preparazione e la cultura specifica: “Non possono essere l’unico esempio: i giovani hanno bisogno di basi”.
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Basi che, oggettivamente, latitano, e di certo non solo nella moda, ancorché e per converso sia sempre più evidente che le basi del successo di influencer e tiktoker non risiedano in un’evidente supremazia culturale e sociale quanto nel suo contrario: quelli di maggiore successo dicono e fanno, meglio e con più garbo o in luoghi molto desiderati, cose che faremmo o che già facciamo tutti.
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Per fare un esempio rilevante in un settore contiguo, quello della bellezza e del trucco, non è da escludere che lo strabordante successo di Clio Zammatteo, più nota come Clio Make Up, non sia estraneo all’assoluta ovvietà dei suoi consigli e dei suoi tutorial, cioè di gesti e idee che si trovano da decenni su qualunque rivista o che ci ha insegnato la mamma negli anni dell’adolescenza, perché in caso contrario una gentile signora che, oltre a vendere i propri prodotti, ti ricorda di struccarti la sera e ti insegna “ad accettare le rughe” non godrebbe di un seguito di 3,4 milioni di persone alla data di oggi.
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[…] In Italia, il segmento dei content creator, cioè e ribadiamolo “creatori di contenuti” che, scusate, suona già come una sfida – contenuti su cosa, per chi, e soprattutto a quale scopo che è poi il punto vero della questione – conta oltre trecentocinquantamila professionisti (per trecento milioni di euro[…], non c’è troppo da stare allegri e nemmeno di che pagare l’affitto, è ovvio che si debbano reclamare pasti e soggiorni gratuiti in cambio di buone recensioni […]).
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Questo piccolo esercito, formato perlopiù da millennial ma anche da genitori ambiziosi e ultrasessantenni guidati più dalla voglia di divertirsi che di guadagnare, si è compattato da cinque anni in un’associazione, Assoinfluencer, che punta al riconoscimento Ateco e sul proprio sito pone quesiti piuttosto rilevanti che la legislazione corrente non prende in considerazione[…].
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[…] la vita del content creator è difficile e incerta come quella del giornalista free lance, con la differenza che, nel momento in cui pubblica un articolo su una testata registrata, un giornalista anche non professionista ha alle spalle una testata, cioè una istituzione, in grado di offrirgli almeno un minimo di copertura etica e a prendersi gran parte della responsabilità per i “branded content” o “contenuti brandizzati” […].
Un creatore di contenuti è invece e nella realtà dei fatti un testimonial multiplo e in genere sottopagato, dunque esposto a ogni genere di ricatto o comunque di sudditanza nei confronti del brand che lo ospita o gli fornisce prodotti da valorizzare sui propri account, cioè da pubblicizzare.
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Chi riesce a dare vita alle “interessanti collaborazioni” con i brand […] è un numero limitatissimo di creatori: gli altri accumulano prodotti senza valore e iniziative di scarsa rilevanza che […] finiscono per far loro perdere inevitabilmente di credibilità.
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Resta da capire come sia stato possibile che, per un decennio, un pubblico immenso abbia ritenuto che la cosiddetta “disintermediazione” offerta dagli influencer fosse garanzia di “autenticità”, ignorando che al costo di produzione dei loro contenuti dovesse corrispondere un compenso, ma è probabile che questo processo, questa logica un po’ perversa di pensiero abbia seguito le stesse dinamiche per le quali si è ritenuto che il citizen journalism avrebbe sostituito la professione.
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In ultima analisi, l’ascesa molto resistibile dell’influencer marketing è un derivato apparentemente superficiale della crisi generalizzata e profonda delle cosiddette élite e la nuova affermazione del populismo. Non ci sono dubbi che in molti casi, quello della morte di Nahel per mano di un poliziotto che ha dato origine a una settimana di tumulti in Francia ne è l’esempio più recente e lampante, la testimonianza filmata di chi era presente sia fondamentale per la verifica dei fatti.
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Ma scambiare una testimonianza casuale per giornalismo di inchiesta è una pessima idea, per non dire una testimonianza pagata […].
[…] La verità è che a mano a mano che l’influencer marketing ha preso piede, uscendo dalla nicchia mediatica, i rischi connessi con la presunta autenticità e indipendenza dei creatori sono aumentati, e insieme con questi la corrispondenza delle campagne con gli obiettivi.
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