Estratto dell'articolo di Fabiana Giacomotti per “il Foglio”
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Tre minuti dopo aver letto sulle testate americane la notizia della decisione dei vertici di Victoria’s Secret di rivedere la fallimentare strategia “woke” per riabbracciare la “sexiness” vecchia maniera, si spera non le modelle con le ali da angelo ma potremmo andarci vicino, sono scesa dal treno alla Stazione Termini e ho buttato l’occhio sulle vetrine dello spazio commerciale del marchio all’ingresso.
lourdes leon alla sfilata di victoria s secret 2
Da un paio di stagioni, vi fanno imponente mostra di sé manichini taglia 46 o forse anche 48, succintamente abbigliati ma con gran brutte cose addosso, cioè con lo stesso genere di mutandone e reggisenoni beige atti a contenere carni abbondanti che un tempo le mercerie tenevano nei retrobottega e che le signore costrette a servirsene chiedevano alle commesse, oggi sales executive, con quel misto di protervia e di mestizia che, senza alcun dubbio, si potrebbe ritrovare all’origine del grande boicottaggio della moda “non inclusiva” degli ultimi anni, la grande rivoluzione nella quale le tante che non vogliono fare sport e nemmeno privarsi del doppio piatto di pasta quotidiano per uniformarsi a un ideale estetico prevalentemente maschile hanno tentato di imporre una variazione dei codici estetici mondiali. Ricordate la vecchia battuta di Queen Latifah su come sarebbe il mondo senza uomini? “Un bel gruppo di donne grasse e zero crimine”.
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[…] Sulla rappresentatività delle donne sovrappeso, le “non conformi”, locuzione ipocrita e comunque assolutista sulla quale tornerò a breve (non conformi a che cosa?), è evidente che non abbia ottenuto un grande successo, visto che nell’ultimo anno le passerelle sono tornate a popolarsi di bellissime e altissime, o anche di eccentricissime e curiosissime ma comunque alte e magre ad eccezione di un’unica ragazza fuori taglia mandata sotto i riflettori per prevenire, troncare e sopire eventuali accuse allo stilista.
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[…] la campagna woke di Victoria’s Secret si è rivelata fallimentare e le proiezioni di vendita per l’anno in corso sono pari a 6,2 miliardi di dollari, in calo perfino rispetto all’anno del Covid, questo accada semplicemente perché la marea di coppe D e E e F in vendita sono semplicemente brutte, e la qualità complessiva dei manufatti molto scarsa.
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[…] La verità incontrovertibile […] è che se la strategia della “diversity and inclusion” ha fallito, è innanzitutto perché troppo tardiva e ipocrita, e in seconda battuta perché i capi sono semplicemente lontani, lo scrivo da boomer europea, al gusto del mondo che si sviluppa a est dell’Atlantico e alla qualità anche media a cui è abituato.
Qui non indossiamo biancheria in poliestere viola, o argento, o in tulle sintetico a pois o giallo evidenziatore, e se compriamo seta non lo facciamo da Victoria’s Secret dove costa quasi come quella di Eres che però ha tutt’altri tagli e garbo, mentre le coppe preformate dei reggiseni in vendita tre per due, rigide come tazze per i corn flakes, non solo ci appaiono, ma ci rendono grottesche. Si può scrivere tutto questo, e cioè che la merce di Victoria’s Secret non ha un minimo di rapporto qualità-prezzo, oltre a perderci nelle disquisizioni sul woke?
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[…] Correva il 2018, e i vertici della multinazionale del gruppo, già lambiti dallo scandalo di Jeffrey Epstein, decisero di sospendere quelle manifestazioni di bellezza femminile […]
[…] Victoria’s Secret faceva insomma ammenda per i propri peccati di mancata inclusione e provvedeva con scelte politicamente correttissime ad adeguarsi agli stessi standard adottati dai marchi del lusso, imprimendo un’inversione di rotta poco credibile non solo nei contenuti, ma anche nelle condizioni di partenza, e cioè che Victoria’s Secret lusso non è.
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[…] Insomma, come dice quel nuovo-vecchio adagio del marketing, “go woke, go broke”, soprattutto per i prodotti più popolari.
Pochi mesi fa, la birra Budweiser era crollata in Borsa dopo aver scelto l’attivista trans Dylan Mulvaney come testimonial. Adesso, Victoria’s Secret ha dovuto riconoscere che il grande successo mediatico del cambio di rotta “non si è mai tradotto in un aumento delle vendite”, smentendo dunque platealmente la giovane Paloma: quando Victoria’s Secret ha smesso di “escludere” le plus size e le obese, quelle stesse donne, ed evidentemente anche molte altre, hanno smesso di entrare nei suoi negozi. Bisogna capire perché, e le ragioni possibili sono due.
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La prima è plasticamente rappresentata da quei tristi reggisenoni beige visti l’altro giorno a Termini: per quanto voglia affermare i propri come canoni estetici imprescindibili, è evidente che nessuna donna di quella taglia voglia che le vengano attribuiti quegli stessi canoni. Vuole sentirsi dire che è bella, non vedersi grassa. Vuole poter entrare nel negozio che ufficialmente veste solo Gisele Bundchen o la rediviva Daria Werbowy e, toh, trovarci qualcosa di identico che fa al caso suo.
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La seconda ragione, un errore molto serio, è ritenere che le fughe in avanti rispetto a un sentire comune di stampo occidentale-asiatico basato su un’estetica sedimentata dai tempi di Prassitele e dei primi illustratori della dinastia Han si possano attuare in cinque anni con qualche campagna di moda […]
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Nel caso di Victoria’s Secret, la verità ultima è comunque e ancora un’altra, ed è che gli Stati Uniti non sono riusciti a fronteggiare in questi ultimi anni gli effetti estetici e psicologici del sistema alimentare che loro stessi hanno creato e diffuso nel mondo nell’ultimo mezzo secolo, e cioè quel misto di junk food e di ingurgito continuo che in Italia va trasformandosi in una teoria di pizzerie e gelaterie senza soluzione di continuità, aperte a tutte le ore grazie a una scellerata deregulation, che ha prodotto un aumento vertiginoso dei disturbi ponderali: quasi un italiano su due è sovrappeso, il dieci per cento è obeso, nessuno di questi vuole sentirselo dire, e in fondo nemmeno vederlo rappresentare.
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