Dolor y gloria di Pedro Almodóvar
Marco Giusti per Dagospia
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“Lassù sento gli angeli che cantano…”. Ecco, ci mancavano solo Mina e gli angeli che cantano. Malgrado Cannes ci presenti non poche novità quest’anno, non è che Dolor y gloria di Pedro Almodóvar con le sue superstar Antonio Banderas e Penelope Cruz, che non dispiacerà certo ai vecchi critici barbogi e ai giornalisti già pensionati in vacanza, sia proprio l’opera fresca che attendevamo con impazienza.
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Eppure, il suo ultimo film, Julieta, con le sue complesse triangolazioni di sceneggiatura, ci aveva fatto davvero ben sperare. Dolor y gloria, con tutta la sua alta classe di messa in scena, attori perfetti, musica di Alberto Iglesias e omaggi alle dive del passato, alla fine si riduce nel lamento di un vecchio regista pieno di acciacchi e ansie di ogni tipo che non ha più tanto da raccontare e si butta nel ricordo della sua infanzia al paesello con la mamma, sia in versione Penelope Cruz che in versione, meno giovane, Julieta Serrano, e che non trova di meglio che lenire ogni dolore con l’eroina, o con una doppietta di vecchi maschi, il protagonista di un suo film molto amato, Sabor, Asier Etxeanda, e il suo vecchio amore, Leonardo Sbaraglia, ormai emigrato in Argentina.
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Il cocktail dolore+eroina lo porta a sognare, al ritmo di “Come una sinfonia” di Pino Donaggio cantata da Mina, il passato, il bianco della grotta- casetta dove viveva con la mamma a Partana, vicino a Valencia, la visione di un muratore nudo che gli ha fatto scoprire il desiderio sessuale, ma anche il rapporto complesso con una mamma ultracattolica che non è del tutto contenta del figlio. Qualche vecchio spettatore con gli stessi acciacchi di corpo e di cuore si commuoverà, penserà alle proprie sciatiche, io un paio di volte mi sono proprio addormentato, anche se Banderas e la Cruz sono bravissimi, ma forse non era materiale da farci proprio un film.
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Certo, il continuo incastro di cinema e vita, di rimandi di personaggi dentro altri personaggi ci riporta ai grandi film di Almodóvar, ma è un po’ un funzionamento minimo del suo cinema. Come l’uso di Mina o della Natalie Wood di Splendore nell’erba. Ci viene voglia di parlare con Pedro dei nostri acciacchi, magari più interessanti dei suoi. Ma chiamare un buon medico, no? Già in sala.
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