Marco Giusti per Dagospia
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Cannes. Non solo per le strade è pieno di militari, ma anche i film parlano di guerre e di scelte difficili. Uffa... il punto di partenza di "Tirailleurs", tradotto per le vendite internazionali come "Father and Soldier", scritto e diretto da Mathieu Valepied con Omar Sy, sempre di più un Bud Spencer bello, è quello di fare una sorta di "Grande guerra" monicelliana con protagonisti un padre e un figlio senegalesi, Omar Sy e Alassane Diong, che vengono catturati nel loro lontano villaggio dai francesi e spediti sul fronte per difendere la madrepatria a Verdun contro i tedeschi.
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Solo che i due non vogliono affatto andare a combattere per la Francia e il padre segue il figlio solo per difenderlo e portarlo al più presto a casa. Ma, esattamente come nella "Grande guerra" ci sarà un finale eroico, perché il figlio non vuole più scappare e il padre si dovrà adeguare. A parte la svolta patriottica, tutta la parte con gli africani francesi che parlano una marea di lingue diverse vestiti da soldati francesi è notevole e Omar Sy gigantesco in trincea, nonché produttore del tutto, una meraviglia. Il film meno, ma farà un botto di soldi in Francia.
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Anche "Les harkis" del belga Philippe Fauchon, passato alla Quinzaine des Realisatuers, parte da una storia interessante, cioè il problema dei soldati algerini, chiamati appunto les harkis, che nella Guerra d'Algeria tra il 1959 e il 1960 combattevano contro i partigiani dell'FNL, il Fronte di Liberazione Nazionale, e si ritrovarono traditi dai francesi quando si misero d'accordo coi rivoluzionari, fecero la pace e lasciarono l'Algeria. Ovviamente dopo una guerra così dura, con torture, tradimenti, orrori di ogni tipo, per les harkis non fu facile vivere nella propria patria. Purtroppo il film ha una regia un po' scolastica e mai inventiva e la povertà dei mezzi in un film storico è un problema non indifferente. Ma i conti che la Francia sta regolando col suo passato coloniale è qualcosa di interessante.
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Sono francesi anche due ottimi film tunisini visti in questi giorni, il sofisticatissimo noir "Ashkal" di Youssef Chebbi, presentato alla Quinzaine, e il più realistico ma non meno politico "Harka", scritto e diretto da Lofty Nathan. Nel primo, in una Cartagine e in un paese che ancora pagano il conto della dittatura e della disillusione del sogno della primavera araba, un poliziotto più anziano e sua nipote, anche lei poliziotta, cercano di unire fra di loro una serie di apparenti suicidi per autocombustione e omicidi che ruotano attorno a un palazzo mai finito bloccato da anni.
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Nel secondo, "Harka", la protesta dell'autocombustione è vista come tragica scelta finale a una vita che sembra senza futuro, tra corruzione della polizia, scivolamento nel traffico di benzina per sopravvivere, sogno della fuga nel Mediterraneo. Il giovane protagonista del film, Aki interpretato dal sorprendente Adam Bessa, alla morte improvvisa del padre, si ritrova a dover fare i conti con la realtà del paese per mantenere le sue sorelline con qualsiasi lavoro. Bello e commovente. Con attori dalle facce vere e fantastiche.
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Molti quest'anno, dopo le tante proteste degli anni passati, i film diretti da donne in ogni sezione. Sia sole che in coppia. Diciamo che è una tendenza. Il tema è di solito la tossicità maschile sul modello de "Il potere del cane" di Jane Campion. Per anni, anzi per decenni abbiamo visto film di pura tossicità maschile, possiamo anche reggere quelli che la vedono come un male. È il caso di "God's Creatures" diretto da due donne, Anna Rose Holmer e Saeka Davis e scritto da Fodhia Cronin O'Reilly e Shane Crowley. Tutto ambientato in una piccola comunità marinara irlandese e cattolica. Gli uomini, come da copione, vanno per mare, pescano di frodo con le maree sbagliate e a volte ci rimangono secchi, bevono, si menano, e molestato le donne.
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Da bravi cattolici vengono sempre perdonati dalle mamme per le loro malefatte. Le donne lavorano in pescheria, preparano ostriche e salmone, bevono al pub e guai se una azzarda un'accusa di molestia o di violenza da parte di un maschio. Quando nella casa di Emily Watson, sorta di supermamma lavoratrice, torna il figlio Brian dall'Australia senza un soldo, Paul Mescak, piuttosto bravo, sembra una festa. Ma Brian è il tipico maschio locale, si comporta davvero male con la bella Sarah, ex-fiamma, e mette in crisi quella che sembrava una vita felice per tutta la famiglia e la comunità.
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Ben girato e ben interpretato, notevole nella prima parte dove le registe ci descrivono la vita nel paesino di pescatori e come allevare le ostriche, il film diventa banale e troppo prevedibile nella sua deriva sulla tossicità maschile... Al punto che lo spettatore capisce tutto prima che le registe te lo facciano vedere.
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