Marco Giusti per Dagospia
Ma si può davvero fare un film sui portantini, come si dice da noi, come questo “Black Flies” diretto dal francese Jean-Stéphane Savaurie con Sean Penn e Tye Sheridan, assurdamente presentato in concorso, e massacrato senza pietà dalla critica internazionale? E devo dire che non hanno tutti i torti, anche se l’ho visto volentieri.
Certo se invece di avere i portantini cazzaroni romani del Fatebenefratelli all’Isola Tiberina di “Un sacco bello” (ricordate la celebre battuta “ma che ci stanno i piranas nel Tevere?” – “Ce stanno, ce stanno”), cioè Alfredo Ciarpelloni detto “Er Banzo” e Luciano Bonanni, ci mettiamo i due first-aiders Sean Penn, con la faccia segnata da duro e il mezzo stecchino in bocca, nel ruolo di Gene “Rutt” Rutkokwsky, e Tye Sheridan bravo ragazzo in quello di Ollie Cross, che scorrazzano con una mega ambulanza nella magica New York notturna in cerca di boss neri mal ridotti, drogati, rincojoniti vari, giamaicani tagliuzzati, figli di boss messicani azzannati da un bulldog, tossiche che partoriscono e Mike Tyson come superiore, avranno pensato, beh, è tutta un’altra cosa.
Anche se quando arriviamo a Chinatown, più o meno, le battute sono come quelle di Verdone (“A ‘ncerto punto questo co no zompo monta sur parapetto e comincia a urla dele frasi che nse capiva ncazzo..." - "te credo era cinese"). La verità è che coi portantini, che non sono poliziotti, lo sentiamo ripetere per tutto il film insieme a diecimila fuck-fucking-fuckyou, per quanto sia interessante la loro vita, ci fai poco. Fai la coppia.
Come nei vecchi buddy buddy coi poliziotti (arieccoli, ma non sono poliziotti), gli metti due donne vicino, Katherine Waterstone con figlioletta a Sean Penn e la più che interessante Raquel Nave a Sheridan. Cerchi un quasi cattivo, il portantino stronzo di Michael Pitt quasi irriconoscibili (ma in “Atlantic City” era fantastico, ricordiamolo).
Poi partono le storie, tutte angoscianti, una dopo l’altra, acchiappi uno e lo porti all’ospedale, senza però che queste storie possano sviluppare qualcuna. Dimostri, come nel libro di Shannon Burke del 2008 da cui è tratta la sceneggiatura di Ryan King e Ben Mac Brown, che questi poveracci fanno una vita di merda, che non riescono a dormire tranquilli, le mogli li lasciano, che passano dalla frustrazione per quello che vedono e per i vivi che non riescono a salvare a sentirsi Dio o San Michele.
Ma la storia? Il regista, il francese Jean-Stephane Sauvaire, che aveva ben esordito a Cannes a Un Certain Regard con “Johnny Mad Dog”, un film violento, ma supergirato su un ragazzino mercenario killer africano, criticato al tempo perché trattava un tema forte come un action americano, fa di tutto per farci capire che ci sa fare con le inquadrature, il montaggio, la musica, gli effetti di ogni tipo.
Il film, siamo tutti d’accordo, in sala o in tv a casa tua te lo vedrai volentieri, la fotografia di David Ungaro è favolosa. Gli attori, anche se Sean Penn esagera un filo, funzionano tutti, anche le donne tristi perché hanno degli uomini violenti che non riescono a non portarsi a casa quello che vedono nella notte. Ma davvero non c’è storia, visto che è un flusso di situazioni cruenti e angosciose che non formano una gran narrazione e trionfano gli stereotipi.
E in questo erano più originali i portantini romani (“macché sai, famme finì”), senza scomodare un film che aveva in parte lo stesso problema, “Bringing Out the Dead” di Scorsese. Ma, soprattutto, non c’è un perché metterlo in concorso assieme al film di tre ore e mezzo di Wang Bing.