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    LA CINA CANCELLA TAIWAN (E COMINCIA DALLA BANDIERA) – PECHINO MINACCIA DI NON DISTRIBUIRE FILM E PRODOTTI AMERICANI E EUROPEI SE CONTENGONO RIFERIMENTI ALL’ISOLA COME STATO – LA CENSURA SI ABBATTE SULLA 24 ORE DI LE MANS, SULLA BIENNALE DI VENEZIA E SU “TOP GUN MAVERICK” IN USCITA QUEST' AUTUNNO: IL GIUBBOTTO DI TOM CRUISE È STATO CAMBIATO PER CANCELLARE LA BANDIERA DI TAIWAN CHE COMPARIVA NEL FILM ORIGINALE – IL CASO QUENTIN TARANTINO…


     
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    Lorenzo Lamperti per la Stampa

     

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    «Rimuovete la vostra bandiera dalla macchina o non potrete correre». In sostanza, è ciò che si sarebbe sentita dire la casa automobilistica AutoHub a poche ore dalla partenza della 24 Ore di Le Mans, celebre gara francese che si è svolta lo scorso fine settimana. Il problema è che la bandiera presente sulla macchina era quella di Taiwan.

     

    Gli organizzatori avrebbero chiesto (con successo) di sostituire la bandiera ufficiale caratterizzata da terra rossa, cielo blu e sole bianco con quella utilizzata ai Giochi Olimpici, dove il team taiwanese partecipa come Taipei Cinese per non travalicare il principio che identifica nella Repubblica Popolare la cosiddetta «unica Cina». Si tratta solo dell'ultimo caso, non certo dell'unico. Rilevanza economica e potere geopolitico.

     

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    La Cina di Xi Jinping è un attore ambizioso e influente che non può essere ignorato. Anzi, va ascoltato e talvolta ammansito. Persino in modo preventivo, nel tentativo di evitarne la rabbia e nella speranza di conquistare uno spicchio del suo immenso mercato interno. E per coccolare il gigante si finisce spesso per seguirne i desideri su alcuni argomenti delicati, a partire da quelli territoriali. Nel caso di Le Mans, Tencent avrebbe fatto sapere agli organizzatori che non avrebbe trasmesso l'evento in Cina se non si fosse rimossa la bandiera taiwanese, avvistata su un post Facebook del proprietario di AutoHub.

     

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    Meno chiaro il motivo per cui la Biennale di Venezia ha modificato da "Taiwan" a "Taipei Cinese" (utilizzata solo in ambito sportivo) la provenienza di due film presenti in gara alla 78esima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica al via il 1° settembre, "The Night" di Tsai Ming-liang e "The Falls" di Chung Mong-hong. La vicenda è diventata un caso politico. La soluzione finale prescelta è stata quella di scrivere "Taipei" con al fianco un asterisco e una parentesi («come da pratica istituzionale»). Proprio il mondo del cinema si è spesso adeguato alle richieste cinesi, o ne ha anticipato le critiche agendo in partenza per evitare di incorrere in proteste ufficiali. È il caso di Tom Cruise, che nel suo "Top Gun: Maverick", in uscita nelle sale il prossimo novembre, ha rimosso le bandiere di Taiwan e Giappone dal giubbetto del protagonista. Entrambe erano presenti nell'originario film del 1986.

     

    Decisamente un'altra epoca, allora la Cina di Deng Xiaoping nascondeva la sua forza ed era difficile l'influenza su Hollywood conquistata da Pechino nei decenni a venire. D'altronde, tra i produttori di "Top Gun: Maverick "figura la compagnia cinese Tencent Pictures. Nel 2017, prima dell'avvio della guerra commerciale-tecnologico-strategico-ideologica tra Washington e Pechino, i capitali cinesi erano arrivati a finanziare il 25 percento dei film esportati da Hollywood in Cina. Complice anche la pandemia, nel 2020 il box office cinese è diventato il più grande del mondo superando quello statunitense.

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    Ecco perché attori e produttori non possono permettersi passi falsi per cercare di rientrare nel rigido sistema di quote dei film importati sul ricco mercato cinese. Nei mesi scorsi, per esempio, John Cena ha dovuto scusarsi per aver definito Taiwan «un Paese» per non compromettere la distribuzione del nuovo capitolo della saga di Fast&Furious. Nel 2019, era stata invece cancellata quella di "C'era una volta a Hollywood" dopo che Quentin Tarantino si era rifiutato di tagliare una scena con un attore che interpretava Bruce Lee, ritenuta offensiva per il pubblico cinese. Tanti altri si sono invece scusati dopo essere finiti nel mirino degli utenti cinesi, pronti al boicottaggio per evitare nuove "umiliazioni" occidentali.

     

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    C'è il celebre caso di Dolce & Gabbana, che non si è più davvero ripresa sul mercato cinese dalla controversia sullo spot con le bacchette. Ma anche Versace, Coach e Givenchy hanno dovuto fare ammenda per delle magliette che in qualche modo rappresentavano Hong Kong, Macao o Taiwan come Paesi e non territori cinesi. Stessa sorte toccata all'app orologio di alcuni smartphone Apple o alla catena di hotel Marriott. Nel 2018, Mercedes-Benz si è invece scusata per aver utilizzato una citazione del Dalai Lama in una foto promozionale su Instagram. Per arrivare poi al caso H&M, che ha chiuso diversi punti vendita per il calo degli acquisti, seguito all'intenzione espressa dall'azienda di non importare più cotone dallo Xinjiang per i rischi di lavoro forzato.

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