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    LA CRISI DI SISTEMA DEL CINEMA ITALIANO - TRA GLI SCENEGGIATORI CI SONO POCHE IDEE E CONFUSE, I PRODUTTORI VIVONO SGANCIATI DALLA REALTA’ E DAI GUSTI DEL PUBBLICO - SI PRODUCE TANTO E SI INCASSA POCO ANCHE PER LA PRETESA DEI REGISTI DI “RACCONTARE” IN BARBA A CHI POI DEVE PAGARE IL BIGLIETTO: L’ARROGANZA NARCISISTICA DI CHI VUOLE FARE A TUTTI I COSTI CINEMA “IMPEGNATO” - E POI, CHI LAVORA TRA GLI ATTORI? LA PARROCCHIETTA DEI SOLITI NOTI, AMICI DEGLI AMICI…


     
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    Gianmaria Tammaro per Dagospia

     

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    Decidere di produrre un film, di ascoltare uno sceneggiatore o un regista, di mettere in piedi una macchina costosa come quella di un set, di investire credendo in un’idea non è mai facile. Mai, lo ripetiamo. Le storie più belle e interessanti del nostro cinema, probabilmente, appartengono al dietro le quinte dei grandi film: com’è nata, per esempio, La dolce vita di Fellini. Che cosa ha dovuto fare Monicelli per girare L’armata Brancaleone, e cosa, poi, ha guadagnato. Chi ci ha rimesso di più, come sono nate alleanza, co-produzioni e così via.

     

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    Il produttore non è una figura estranea al processo creativo (sembra di sì, ci diciamo di sì, ma no). Spesso – non sempre, ecco – è la figura chiave che porta al successo, o all’insuccesso, di un film. (Stiamo parlando solo di cinema, in questo caso: lo precisiamo onde evitare incomprensioni con le varie categorie di settore). E quindi? Quindi dobbiamo restare in sospeso, tra due fuochi, un piede di qua, nel tumultuoso mondo delle riunioni, delle chiamate a tarda notte, delle litigate furiose e delle intuizioni geniali, e l’altro di là, nell’ordinato disordine – si fa per dire – dei set, dei casting, delle ossessioni di registi, attori e sceneggiatori.

     

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    Il punto, però, è un altro. E sicuramente non è la figura del produttore, come qualcuno potrebbe pensare. Ma è il nostro cinema. Che è cambiato, è diverso, ha attraversato nel giro di pochi anni innumerevoli fasi e innumerevoli rivoluzioni strutturali, che si è prima visto inondato di investimenti e soldi (benvenute, piattaforme streaming) e che poi ha scoperto – sulla propria pelle – che non è tutto oro quello che luccica, che ogni accordo ha il suo prezzo e che la sala, con i suoi limiti e i suoi punti di forza, merita un altro tipo di approccio.

     

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    Insomma, il mondo è andato avanti. Gli spettatori, volenti o nolenti, hanno gusti e sensibilità differenti. Quando vediamo il successo dei blockbuster americani, ci limitiamo a una pigrissima alzata di spalle e a un laconico “vabbè, ma so’ americani”. E invece no. Non è solo questo. È come entrare nella vita e nella testa delle persone. È come muoversi per rendere tutto più appetibile e, soprattutto, più interessante. Non basta staccare la spina all’enorme catena di montaggio che è stata messa in piedi in questi anni, dove ogni film veniva seguito da altre due, tre, quattro copie della stessa storia.

     

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    Bisogna fare i conti con la realtà. E bisogna farlo onestamente. Siamo rimasti indietro. Noi, come industria. Come gruppo. Innanzitutto perché non siamo un’industria. Non una vera e propria. Non una che è formata da player – si dice così, scusateci – pronti ad aiutare chi è in difficoltà e a sostenere la competizione. Da noi, questa cosa non c’è. Le figure chiave sono sempre le stesse. Chi ha la voce più grossa è sempre lo stesso individuo. Chi produce, e produce tanto, non sembra nemmeno vederlo, il problema. Perché si trova in una situazione particolare, unica.

     

    La colpa – rieccoci: quanto ci piace distribuire le colpe – è della tax credit? No. O meglio: non è mai il mezzo, preso singolarmente, a portare a determinate conseguenze; è chi quel mezzo lo usa. E dunque ciò che manca, e che manca a tutti i livelli, è la consapevolezza. Non c’è un interruttore da schiacciare. Non c’è un panel da organizzare e in cui parlare per cambiare magicamente il nostro cinema (sì, stiamo parlando ancora di cinema). Se un film viene prodotto, se riceve – come si dice – luce verde, deve avere qualcosa di più di un nome convincente, del grande autore o delle aspirazioni internazionalistiche.

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    Deve essere accolto, e coccolato e cresciuto, nel grembo materno dell’industria – questa benedettissima industria. E deve essere presentato in un certo modo. Perché noi abbiamo titoli che vale la pena vedere, li produciamo; c’è gente che, per essi e dietro di essi, ha perso tempo, salute ed energie. Ma il pubblico non lo sa. Gli spettatori non vengono tenuti minimamente in considerazione. Rimane un dialogo ai massimi livelli, nel blu dipinto di blu, e chi poi deve pagare il biglietto non sa niente. Per carità: in un rapporto, anche il pubblico ha le sue responsabilità. Ma spesso non viene messo nelle condizioni di poter partecipare, di poter – con la sua presenza – fare la differenza.

     

    Forse è la parola “industria” che ci ha confuso; forse ci siamo convinti che “industria”, anche nel caso del cinema, voglia dire: io produco, tu compri. Fine dei giochi. E invece no; invece siamo in un borgo, ogni produzione-distribuzione è una bottega, e il cliente, il signor cliente, va coinvolto. Dal momento 0, quando un determinato film riceve luce verde, al momento 10, quando lo stesso film arriva nelle sale.

     

    Domanda: quanto tempo ci mettiamo, di solito, per annunciare il cast di un lungometraggio? E quanto tempo, poi, ci mettiamo per pubblicare il poster, il trailer e qualche clip? Di più: come li confezioniamo, questi materiali? A chi ci rivolgiamo? Ci sono professionisti che meritano molta più fiducia e a cui, invece, si dice “si deve vedere la faccia del protagonista, si deve leggere il nome; sì, ma deve essere tipo Rai, chiaro, immediato, semplice: la gente non capisce”.

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    Trattiamo gli spettatori – e suddetti professionisti che montano trailer e confezionano poster – come se fossero degli idioti. L’abbiamo già detto l’altra volta, sempre su queste pagine, ma lo ripetiamo di nuovo: è fondamentale rischiare. È fondamentale, perciò, avere fiducia nel pubblico, credere che capirà quello che gli diciamo. E gli esercenti? Quando ci sono gli incontri dedicati alla presentazione dei nuovi listini, gli esercenti diventano il pubblico. Guardano i trailer, ascoltano le presentazioni e decidono – esattamente in quel momento – se essere o meno interessati a un particolare titolo.

     

    A volte, puntano sul “sicuro” (che sicuro, ahinoi, non è mai): e chiedono la commedia, il film per tutta la famiglia, la storia con il grande attore commerciale. Altre volte, invece, vorrebbero saperne di più, capire di più, e dall’altra parte trovano un muro: “ma figurati se v’interessa…”. E invece ce lo dobbiamo figurare. Immaginiamolo. Sono stati impiegati mesi, talvolta anni, per finire un film: cosa sarà un’ora in più nella sua presentazione?

     

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    Il cinema italiano non è il cinema francese, non ha quelle regole, non ha quell’impostazione e – diciamocela tutta – non ha quella serietà. E non è nemmeno il cinema americano, per fortuna. È un’altra cosa, con un’altra storia. Ci siamo convinti di sapere tutto, di sapere cosa le persone vogliono, e abbiamo smesso di ascoltare. Il mondo è andato avanti, l’abbiamo detto; e noi – tutti noi: produttori, distributori, artisti, giornalisti, esercenti – siamo rimasti indietro.

     

    Il sistema non esiste? Costruiamolo. La nostra industria vacilla? Diamole un sostegno. Dove sono i tavoli di discussione al di fuori dei festival e dei mercati? E dov’è la sincerità nei proclami e nei comunicati ufficiali? “Abbiamo vinto un premio”: sì, ma quanto avete incassato, poi, grazie a quel premio? Quanta gente siete riusciti a coinvolgere? Il cinema italiano è pieno di sfumature, pieno. Non sono gli attori, come è stato detto, a non partecipare – e per questo a boicottare – la promozione dei film. Alcuni, se non protagonisti, non vengono nemmeno invitati alle anteprime: rendiamoci conto.

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    Dobbiamo ripartire. Se non da zero, quasi.

     

    E dobbiamo rieducare – e rieducarci – al cinema. Se c’è una cosa che le piattaforme streaming hanno capito (piccolo inciso: perdonateci, associazioni di categoria) è che l’offerta deve essere personalizzata. Io parlo con una persona, e quella persona deve sentirsi chiamata in causa. Non parlo con il mucchio.

     

    Non banalizzo, non vado veloce; non uso frasi a effetto. Non siamo Giorgio Mastrota – con tutto il rispetto, ovviamente, per Giorgio Mastrota. Abbiamo bisogno di Alberto Angela per raccontare il nostro cinema. Tutto quello che pensavamo di sapere vale e non vale; le professionalità non si costruiscono sulle solide certezze (non stiamo vendendo divani, suvvia). Si costruiscono sulla capacità di fare autocritica, di ascoltare i consigli e i suggerimenti altrui. E sull’istinto al cambiamento. O ti adatti o muori, come si dice. Ma qui non stiamo parlando di vita o di morte e quindi permetteteci di riformulare: o ti adatti o floppi.

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