Francesco Grignetti per “La Stampa”
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Era trent'anni fa, l'autunno del 1991. Il cervello di Giovanni Falcone, quel cervello che la mafia temeva più di ogni altra cosa e per questo il giudice doveva morire, partoriva un'idea rivoluzionaria per l'arretrata Italia di quei tempi: contro la mafia, occorreva creare una sorta di Fbi italiana.
Nacque così la Dia, Direzione investigativa antimafia. Un organismo d'élite di cui non si parla quasi mai, incardinato nel Dipartimento di Ps, dove confluiscono i migliori investigatori delle tre forze di polizia, e che da trent' anni firma alcune tra le indagini più sofisticate contro la criminalità organizzata. Se sono stati arrestati il boss mafioso Leoluca Bagarella oppure il capo dei Casalesi, Francesco "Sandokan" Schiavone, è merito del lavoro silenzioso della Dia.
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«Parlare poco, apparire mai», è il loro slogan. Ed ora è anche il titolo di un docu-verità, prodotto da 42° Parallelo e Rai Cinema, scritto da Diana Ligorio, che verrà trasmesso il 29 ottobre, alle 21.20, da Raitre. Per la prima volta, parlano gli investigatori della Dia. Tutti di spalle o con il passamontagna, perché questa è una prima linea dove non si perdona. L'unico che può essere ripreso è l'ex magistrato Giuseppe Ayala, che fu amico e collega di Falcone, e con lui condivise gli anni del Maxi-processo. Dice dunque Ayala: «Noi andavamo spesso a quel tempo negli Stati Uniti.
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Ci dissero: voi in Italia combattete il crimine organizzato in un modo disorganizzato». Ed era vero. Ma il «metodo Falcone» era altro; prevedeva condivisione delle informazioni, lavoro in pool, capacità di unire informazioni di carattere finanziario con i risultati delle indagini sul campo. Per questo motivo, alla mafia faceva tanta paura Falcone. «E lui - dice ancora Ayala, che trattiene a stento la commozione - era un innovatore geniale. Creò la Dna (la Direzione nazionale antimafia, per i magistrati, ndr) e la Dia (la Direzione investigativa antimafia, per le forze di polizia)».
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Ecco, negli ultimi trent' anni queste due sigle sono l'incubo della criminalità organizzata. Racconta un agente, protagonista della cattura di Leoluca Bagarella, che nel giugno 1995 tenevano da giorni sotto osservazione un galoppino della cosca, con un negozio nel cuore di Palermo. «E già non era facile». Un mattino vedono un tizio fermarsi con la macchina e il mafioso salire a bordo.
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«Uno di noi capì che era Bagarella. Ma non potevamo prenderlo lì. Era pieno di uomini suoi. Sarebbe finita male». Perciò gli agenti lo seguono per Palermo. Segue un'azione fulminea, senza aspettare ordini o rinforzi. E questi, alla fine, sono gli agenti della Dia: persone che sacrificano la loro vita per anni, con famiglie a pezzi, votati ossessivamente alle indagini, ma in grado di arrivare al risultato. Ed è l'unica cosa che conta. «Noi siamo lo Stato», dicono. Anche se poi sono costretti a vivere con la pistola sul comodino e devono mettere il «mephisto» in pubblico.
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