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    LA FINE DI UN’IDEOLOGIA NON PORTA DEMOCRAZIA – A 30 ANNI DALLA CADUTA DELL’URSS, LA RUSSIA E' INCOMPIUTA: A MOSCA SI DISCUTE DI FAR TORNARE IN PIAZZA LA STATUA DI DZERZHINSKY E NELLE PRIGIONI CI SONO PIÙ DISSIDENTI CHE NEL 1991 - LA TV TRASMETTE FILM NOSTALGICI, LA GUERRA FREDDA È PIÙ FREDDA CHE MAI, E CIRCA LA METÀ DEGLI UNDER 24 VORREBBE SCAPPARE ALL'ESTERO – PUTIN, CAVALCANDO LA SINDROME POST-TRAUMATICA DELLA PERDITA DELL'IMPERO, SI CONTENDE… - VIDEO


     
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    Anna Zafesova per “la Stampa”

     

    demolizione del monumento a felix dzerzhinsky demolizione del monumento a felix dzerzhinsky

    Boris Eltsin che si arrampica sul carro armato mandato dai golpisti per chiamare alla rivolta. I moscoviti che costruiscono barricate intorno al parlamento russo. I falchi del Pcus che raccontano in conferenza stampa di aver preso il potere al Cremlino, con le mani che gli tremano in mondovisione. Mikhail Gorbaciov che, dopo tre giorni di arresti domiciliari nella sua dacia crimeana, scende la scaletta dell'aereo che lo riporta a Mosca, il volto scavato, gli occhi due fosse nere, con alle sue spalle una Raisa devastata che abbraccia la nipotina avvolta in una coperta: un'immagine da naufrago che preannuncia la caduta del primo e ultimo presidente sovietico.

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    Il tricolore degli zar che sventola nelle piazze, soppiantando la bandiera rossa, mentre la statua di Dzerzhinsky, il fondatore della polizia segreta diventata celebre con il nome del Kgb, viene sollevata dal suo piedistallo con un cappio al collo, in un'impiccagione simbolica che doveva concludere, due anni dopo la caduta del Muro di Berlino, il collasso del castello di carte del blocco sovietico. Immagini entrate nella storia trent' anni fa, e che tornano alla memoria oggi, quando si discute di nuovo di regimi crollati in tre giorni.

     

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    Dovevano essere i tre giorni che sconvolsero il mondo, come quei dieci giorni che nel 1917 avevano segnato la nascita dell'impero che si sgretolava ora sotto gli occhi attoniti di analisti, strateghi e politici, alleati o avversari, che l'avevano considerato una grande potenza. Una rivoluzione pacifica - il comunismo sovietico cadde al prezzo di tre vite di giovani che avevano cercato di fermare un blindato dei golpisti nel centro di Mosca - che conserva molti retroscena misteriosi, ma che riuscì a vincere grazie a un'alleanza della piazza, della parte più modernizzata delle élite, e della comunità internazionale.

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    Il tentativo di golpe conservatore che doveva riportare le lancette dell'orologio indietro non aveva fatto che accelerare la fine di un sistema che Gorbaciov aveva tentato disperatamente di riformare prima dell'inevitabile rottamazione. Furono giorni di un entusiasmo e di un ottimismo globale: l'Unione Sovietica aveva abbattuto il suo Muro, con due anni di ritardo rispetto ai suoi satelliti nell'Est Europa.

     

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    Il Kgb era stato chiuso, Dzerzhinsky mandato in pensione in un parco, dei 16 milioni di membri del Pcus messo al bando non ne rimaneva più nessuno, e un tale Vladimir Putin, rimasto disoccupato, stava meditando seriamente di fare il tassista. Sembrava un indiscutibile lieto fine, la storia era finita, la Guerra fredda pure, la Russia tornava nel mondo dal quale si era autoisolata 73 anni prima, lasciando libere le altre 14 repubbliche che avevano composto uno degli imperi di vita più breve della storia.

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    Sembrava una ricorrenza da celebrare nei secoli, da raccontare ai nipoti, da immortalare nei film. Soltanto trent' anni dopo, non se la ricorda nessuno. Chi si è lasciato alle spalle senza rimpianti quell'ideologia e quel Paese - i Baltici ormai nell'Ue e nella Nato, e l'Ucraina e la Georgia che stanno bussando alle loro porte - non guarda al passato.

     

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    Chi avrebbe preferito che nell'agosto 1991 avessero vinto i golpisti - i nuovi manuali di storia in arrivo nelle scuole russe raccontano che il collasso dell'Urss sia stato frutto di un complotto di Eltsin e del presidente ucraino Leonid Kravchuk, ispirato dagli occidentali - semmai vorrebbe indire il lutto, come Vladimir Putin, convinto ancora che la fine dell'impero comunista sia stata «la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo». A Mosca si discute appassionatamente di far tornare Dzerzhinsky sulla piazza dove ha sede l'ex Kgb, che ha cambiato nome, ma è più potente che mai, nelle prigioni ci sono più dissidenti che nel 1991, la tv trasmette film nostalgici, la Guerra fredda è più fredda che mai, e circa la metà degli under 24 russi dice ai sondaggisti che vorrebbe scappare all'estero.

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    L'unica cosa veramente cambiata, con la storia che ha fatto andata e ritorno, sono i consumi: le code nei negozi sono un ricordo dei più anziani (insieme allo scarso ma capillare welfare socialista), e la ricchezza viene cercata e ostentata con uno sfarzo che avrebbe messo in imbarazzo perfino i Romanov, nel frattempo completamente riabilitati e rimpianti insieme a Stalin.

     

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    Nel 1991, si dava per scontato che i Paesi ex sovietici, Russia in testa, si sarebbero rapidamente uniti alla libertà e al benessere occidentale, con più o meno difficoltà. Quando questo sogno si scoprì utopico, la priorità di tutti - di Mosca come delle capitali occidentali - fu quella di garantire una transizione dal comunismo pacifica: la tragedia della ex Jugoslavia era sotto gli occhi di tutti.

     

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    Trent' anni dopo, anche il mito di una dissoluzione non violenta va archiviato: dalle sanguinose guerre civili nel Tagikistan e in Georgia, alla tragedia cecena e al «conflitto congelato» in Trasnistria, alla guerra tra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh, fino all'annessione della Crimea e all'invasione russa nel Donbass ucraino, un conflitto di cui non si vede la soluzione, che a oggi ha fatto 14 mila morti e più di un milione di profughi, il numero più alto nell'Europa del secondo dopoguerra. Nelle repubbliche ex sovietiche dell'Asia Centrale i leader comunisti sono rimasti al potere in khanati di stampo nordcoreano.

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    In Russia e Bielorussia due leader che hanno cavalcato la sindrome post-traumatica della perdita dell'impero si stanno contendendo il titolo di «ultimo dittatore d'Europa». Non è stata una transizione pacifica, e la fine dell'ideologia comunista non è bastata a portare democrazia: l'Unione Sovietica era un colosso su gambe d'argilla, ma anche una mina a scoppio ritardato, e il giorno in cui la sconfitta del golpe dell'agosto 1991 verrà festeggiata come l'inizio della fine deve ancora arrivare.

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