Estratto dell’articolo di Andrea Minuz per “il Foglio”
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Flaiano, che rivendicava il copyright del titolo, avrebbe seguito con gran divertimento la lunga marcia dei “Vitelloni” dall’Italia del boom a quella di Instagram. Perché se la metafora bovina non dice granché ai millennial, basta ricalibrarla sulle nuove sensibilità linguistiche ed eccoci di nuovo al punto di partenza. Ecco i “bamboccioni” di Padoa-Schioppa, subito ammorbiditi poi nei “choosy” della Fornero.
Ecco i falsi percettori di reddito di cittadinanza che stanno tutto il giorno al bar […] i nuovi vitelloni-influencer, tatuatissimi, sculettanti, muscolosi, ecco i vitelloni bad-boy come Fabrizio Corona, o i vitelloni frivoli, come Gianluca Vacchi, supervitellone postmoderno […]
i vitelloni 2
Ecco il dramma dei “Neet”, asettico indicatore statistico per immortalare “quei giovani che non studiano, non lavorano, non sono impegnati in alcuna attività formativa”, di cui vantiamo […] il primato europeo. E quanti giovani artisti, scrittori, performer, ma anche content creator “impiegati presso me stesso”, osservatori di serie tv, umarell di Twitter e registi precari costretti a logorante attesa per un esordio con opera prima sovvenzionata dai fondi a pioggia del Pnrr, o da provvidenziale crowdfunding in famiglia.
“I Vitelloni” di Federico Fellini compie settant’anni e se li porta benissimo (lo si festeggia a Rimini con un convegno di due giorni, il 13 e 14 aprile, organizzato dal Fellini Museum e dall’Università di Bologna). L’immortalità al cinema si concede davvero a pochi titoli, ma ci sarà un motivo se Stanley Kubrick lo metteva al primo posto dei suoi preferiti e se Scorsese lo ha rifatto in salsa americana con Harvey Keitel e Robert De Niro vitelloni a Little Italy in “Mean Streets”.
i vitelloni
[…] Il film con cui Fellini diventa Fellini, […] diventa subito un fenomeno sociale. La parola, che ai distributori assai terrorizzati suonava incomprensibile, entra nel lessico italiano come capiterà poi con “paparazzo”, “dolce vita”, “amarcord” (dopo il successo del film, i produttori proponevano con insistenza a Fellini un sequel dal titolo “Le vitelline”, già in quota gender-balance). Si aprì un mondo. Il telefono di Fellini squillava in continuazione. Vitelloni da tutta Italia reclamavano un posto nel prossimo film del Maestro, chiedevano di essere ricevuti, si erano riconosciuti, volevano sfogarsi, volevano raccontare le loro gesta di vitelloni.
Fellini aveva toccato un nervo scoperto: “Da molte parti d’Italia, giovani provinciali in tutto e per tutto simili ai protagonisti del famoso film, si sono presentati al regista affinché risolvesse il problema della loro vita”, titolava il Corriere della Sera nell’inverno del ’53. […] fu “l’inedita scoperta della provincia italiana”.
i vitelloni 3
Perché è qui che cambia la storia del cinema italiano. Fellini e Flaiano intuiscono molti anni prima di Maria De Filippi quanto la provincia sia il cuore di questo paese, il suo grande inconscio collettivo, un paese di borghi, contado, comuni e cittadelle, città invece poche, e dalle pretese metropolitane sempre disattese. Una “provincia che è dentro di noi”, come dice per l’appunto Maria che la sa lunga. Prima dei “Vitelloni” la provincia al cinema non esisteva. C’erano Roma, Napoli, Milano, c’era l’epica contadina di “Riso amaro”, quella marinara e verghiana de “La terra trema”, c’erano la campagna, il folklore, le piccole località, “L’imperatore di Capri”, “I pompieri di Viggiù”. Ma l’anonimia della piccola provincia borghese no.
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Una provincia in cui si riconosceranno tutti, da Scorsese a Italo Calvino. […] Quella dei “Vitelloni” è una provincia immaginata, sognata, ricordata. Una provincia di chiunque, coi suoi tratti immediati, distillati, facilmente riconoscibili anche per gli spettatori americani, finlandesi o giapponesi: il caffè, la passeggiata sotto i portici, il molo, le desolazioni improvvise, il gran torpore, la noia. […] “I Vitelloni” è certo il film di Fellini dove più si vede all’opera il saccheggio, la sfrontata ruberia felliniana di idee, ricordi, situazioni tipiche di Flaiano. Ma qui sta appunto anche il miracolo.
i vitelloni di enrico de seta
[…] Flaiano scriveva e teorizzava alla fine degli anni Trenta, sulla rivista “Cinema”, quando spiegava che i luoghi nei film vanno inventati, rifatti con pochi tratti essenziali, altrimenti ci si addormenta nel cliché, nel luogo comune della cartolina […] Ecco quel che tutti i film a tema “vitelloni” venuti dopo non hanno, dai “Basilischi” di Lina Wertmuller ai “Laureati” di Pieraccioni e alle variopinte muccinate di provincia o meno: la cartolina del luogo è più forte del “sentimento universale della provincia”.
[…] “I Vitelloni” è poi […] il gesto dell’ombrello di Sordi, fragorosa spernacchiata ai “lavoratori della malta” con pestaggio a seguire degli operai giustamente incazzati. L’immagine più libertaria e liberatoria della storia del cinema italiano, insieme alla “cagata pazzesca” della corazzata Kotiomkin, altro che i tappeti di bandiere rosse in “Novecento” di Bertolucci. Un affronto al totem sindacale, alla religione del lavoro, al culto astratto dell’operaio, in un momento in cui il lavoro è valore supremo della costellazione politico-cinematografara del comunismo italiano. Il fatto è che i vitelloni proprio non vogliono lavorare. Non è che non lo trovano, o non li pagano abbastanza o non si piegano allo stage non retribuito, macché. […] Non gli va e basta. Non ne hanno in fondo così bisogno.
i vitelloni
Sono piccolo-borghesi, […] meglio stare a casa, meglio i pomeriggi passati al caffè a immaginare avventure fantastiche e salgariane tirando poi fino all’alba. All’appuntamento col miracolo economico i vitelloni arrivano già spompati. Non hanno la tempra dei padri che han fatto magari la Resistenza, ma ne sentono tutto il peso addosso, ora che tocca a loro, ora che dovrebbero rimettere in moto un paese nuovo e libero […] E anche questi giovani che in piena euforia del boom non vogliono lavorare, non vogliono crescere, non vogliono diventare nessuno […]
fellini foto di toscani
Scettico e disincantato come sempre, ma ancora di più davanti alla retorica del “miracolo”. L’Unità, invece, rimproverava a Fellini la mancanza d’analisi e di esplicita condanna di questi “mantenuti, arrivati sulla soglia dei trent’anni con una mentalità da bambini”.
Sono comunque tutte cose che erano già nell’aria: “Il mammismo”, breve saggio di Corrado Alvaro, esce l’anno prima del film, e “La provincia addormentata”, raccolta di racconti di Michele Prisco che era molto piaciuta a Flaiano, è del 1949. Subito dopo arriveranno le ricerche di Banfield sul “familismo amorale” degli italiani. Fellini e Flaiano fiutano, rapinano, rilanciano.
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E il film deborda, sconfina subito nell’immaginario, trova il nome giusto a tutta un’antropologia italiana sommersa che nessuno sin lì aveva saputo raccontare così bene, fissando tipi precisi, maschere che rivivono a ogni generazione, basta aggiungere Instagram o TikTok, come l’intellettuale di provincia col manoscritto sottobraccio, fallito ancora prima di iniziare, che nel film ha la faccia stralunata e perfetta di Leopoldo Trieste. Poi i vitelloni si confonderanno coi playboy da riviera, farfalloni, sbruffoni, sempre a caccia di turiste tedesche, olandesi, svedesi, in vacanza a Gabicce, Misano Adriatico, Riccione. Un vitellone performer sessuale, che Fellini farà rivivere anche nel “Casanova”, archetipo del gran vitellone italiano. […]