Angelo Allegri per "il Giornale"
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Donald Trump, sbrigativo come la caricatura di un uomo d'affari americano, si era offerto di comprare in una volta sola tutto il Paese. Gli abitanti della Groenlandia, 60mila in un territorio grande come mezza Unione Europea, non l'hanno presa bene. Nelle ultime elezioni, tenute in primavera, della proposta si è parlato ancora.
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E anzi uno dei motivi per cui Trump si era mosso, le enormi risorse minerarie dell'isola più grande del mondo, sono state al centro della contesa elettorale. Alla fine i socialdemocratici, che governavano praticamente senza interruzioni dall'indipendenza nel 1979, hanno perso; a vincere è stato un partito ancora più a sinistra, Ataqatigiit, ovvero «Comunità». I primi avevano mostrato più di un'apertura verso i progetti di sfruttamento minerario, gli esponenti di «Comunità» vogliono frenare su tutta la linea.
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Nel grande Nord la corsa all'oro è destinata, dunque, con ogni probabilità, a rallentare. Anche se bisogna intendersi: l'oro della Groenlandia non è oro vero (c'è anche quello ma non è più importante come una volta); si parla piuttosto di sostanze minerali.
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Tutto questo contribuisce a spiegare perché oggi ci sia un unico dominatore del mercato: la Cina, che attualmente gestisce circa il 93% del fabbisogno internazionale. Partendo dal primo e maggiore giacimento di terre rare ancora in attività, quello di Bayan Obo, nella Mongolia Interna, Pechino ha deciso di conquistare un predominio mondiale accettando di devastare dal punto di vista ecologico intere zone del suo territorio.
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Fino alla seconda metà degli anni Ottanta tra i maggiori produttori c'erano gli Stati Uniti con la miniera di Mountain Pass in California, che però ha dovuto fare i conti con regolamentazioni ecologiche, processi per risarcimento danni e conseguenti fallimenti. In anni recenti ha riaperto (gestisce circa il 15% del fabbisogno globale) ma trasferendo, ed è un paradosso, le lavorazioni più inquinanti proprio in Cina.
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La stessa scelta hanno fatto altri produttori mondiali, il che non ha fatto altro che consolidare il primato di Pechino: che quando non fa tutto in casa (si parla delle attività di estrazione, separazione, lavorazione dei materiali) controlla almeno una delle fasi più delicate della cosiddetta «catena del valore». Da notare, tra l'altro, che la stessa Cina ha deciso a sua volta negli ultimi anni di «traslocare» parte del lavoro più sporco in Myanmar, dove gli standard ecologici sono per il momento ancora più bassi.
DIPENDENTI DAL NEMICO
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Dal punto di vista geopolitico il risultato di tutta questa evoluzione è quasi grottesco: uno dei settori in cui le terre rare sono ormai indispensabili è l'aviazione e un recente Rapporto del Congresso Usa ha calcolato che un solo F-35 della Lockheed, caccia di ultima generazione dell'aviazione Nato, ne contenga per 417 kilogrammi. A chi devono rivolgersi gli americani per procurarsi questo materiale? Al loro principale avversario, la Cina, appunto. Nessuna meraviglia che le terre rare siano diventate una delle aree di tensione tra i due Paesi.
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Secondo quanto riferito dal Financial Times le società produttrici cinesi sarebbero state di recente convocate dal governo di Pechino per una serie di audizioni. L'obiettivo era quello di stabilire se un eventuale embargo avrebbe davvero messo in crisi gli americani o se questi avrebbero potuto in qualche modo rivolgersi agli altri (pochi) fornitori presenti al mondo e risolvere così i loro problemi.
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Sempre Pechino ha poi inserito in una «lista nera» produttori aeronautici o missilistici come Lockheed, Boeing o Raytheon per le loro forniture di armi a Taiwan. E la lista nera potrebbe trasformarsi in un divieto di fornitura. Da parte loro gli americani, Pentagono e Dipartimento di Stato, hanno definito come priorità strategica la creazione di canali alternativi di approvvigionamento.
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IL PRECEDENTE
La crisi attuale, secondo molti analisti, assomiglia all'unico precedente, che risale al periodo tra il 2010 e il 2011. Allora la Cina, che già deteneva il semi-monopolio del settore, decise di contingentare le esportazioni per una delle periodiche crisi politiche con il Giappone. Lo scossone fu avvertito, ma l'industria mondiale reagì trovando materiali alternativi o mobilitandosi per trovare nuovi giacimenti. In quel momento, però, l'utilizzo delle terre rare era più limitato rispetto a quello di oggi.
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Un «infarto» delle forniture rischierebbe di provocare in questi anni conseguenze più gravi. A peggiorare le cose è che la Cina non sta mettendo le mani solo sulle terre rare. «Sia la decarbonizzazione globale dell'economia sia la quarta rivoluzione industriale si basano sulle terre rare e su un gruppo sempre più numeroso di altri minerali critici (in inglese critical raw materials) come il litio e il cobalto», spiega Sophia Kalantzakos, docente alla New York University in un libro («Terre Rare») appena pubblicato da Egea.
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Secondo un recente rapporto della Banca Mondiale, la produzione di litio e di cobalto dovrà aumentare del 500% entro il 2050 solo per soddisfare la domanda di energia pulita. Per quanto riguarda la produzione di litio il valore è già triplicato nei tre anni dal 2015 al 2018 sfiorando le 100mila tonnellate. La stessa cosa si può dire per altri materiali, e perfino le forniture di nickel e rame, un tempo considerati abbondanti, dice Kalantzakos, sono diventate un problema (vedi l'altro articolo in questa pagina, ndr).
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Anche in questo caso dice Kalantzakos, la Cina «ha guardato avanti e ha in mano le carte migliori. In Africa e in America Latina, ha creato forum per il dialogo e la cooperazione. Ha inoltre concordato con singoli Paesi partenariati bilaterali che comprendono investimenti in infrastrutture, estrazione di risorse e raffinazione». Tutto per assicurarsi il controllo delle risorse decisive per la quarta rivoluzione industriale.
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«Per le batterie e i magneti, per esempio, la Repubblica Popolare Cinese domina intere catene di fornitura che non possono essere facilmente ricostruite». Il libro della Kalantzakos fa l'esempio del cobalto, ingrediente fondamentale per batterie, smartphone, laptop e veicoli elettrici. La sua concentrazione geografica assomiglia molto a quella delle terre rare, con la Repubblica Democratica del Congo, uno dei Paesi più poveri dell'Africa, che contribuisce per oltre il 60% alla produzione mineraria e con le più grandi riserve globali.
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Manco a dirlo a dettare legge in Congo è la Cina, che già produce circa tre quarti delle batterie al litio del mondo e che, dal Cile all'Australia, ha negli ultimi anni fatto shopping di tutte le materie prime destinate a diventare indispensabili. Gli altri Paesi fanno fatica a reggere il confronto con la determinazione strategica cinese. Il primo vero passo dell'Europa è solo dell'anno scorso con la creazione di quella che è conosciuta con la sigla inglese di Erma: alleanza per i materiali critici.
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Più di un centinaio tra università, centri di ricerca e aziende che hanno come obiettivo rafforzare la competitività europea nel campo delle nuove materie prime strategiche. Quanto alle terre rare il vecchio continente potrà utilizzare nuove miniere in Serbia e Ucraina, che però saranno operative solo dal 2030.
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