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1. Epopea di un genio ribelle
Michele Fossi per “Vogue”
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Il 31 di questo mese cade il centenario della nascita di Helmut Newton. A decenni di distanza dalla data di pubblicazione, i suoi ritratti di donne forti, ricche ed emancipate su tacchi a spillo, imbevuti di erotismo e ossessioni, continuano a stupire, polarizzare, affascinare, riuscendo a parlare a generazioni di spettatori molto diverse tra loro.
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In questa intervista Matthias Harder, direttore della Fondazione a lui intitolata a Berlino, ci introduce nel ricco e complesso universo del fotografo, ripercorrendo le principali tappe della sua vita privata e professionale. Dagli esordi alle fasi più sperimentali e avanguardistiche di tutta la sua carriera, attraverso missioni (apparentemente) impossibili e grandi conquiste.
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Helmut Neustädter – questo il suo nome di battesimo – nasce a Berlino nel 1920 in un’altolocata famiglia ebreo-tedesca. È giovanissimo quando capisce che da grande vorrebbe fare il fotografo. Ribellandosi al padre, che per il figlio sognava una professione più borghese, a sedici anni inizia uno stage nello studio di Yva, la più celebre fotografa di moda della Repubblica di Weimar.
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Nell’opera newtoniana si scorge l’influenza di Yva?
Certo, e non può essere mai sottolineata abbastanza! Newton eredita da lei il gusto per l’eleganza sensuale e l’idea che le riviste patinate, e non il mercato dell’arte, siano l’habitat ideale delle fotografie di moda. Newton descriverà i due anni di apprendistato con Yva come il periodo migliore della sua vita.
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Apprendistato che si conclude forzatamente nel ’38, quando, per sfuggire alle persecuzioni naziste, è costretto a lasciare Berlino.
Prese un treno dalla stazione Zoo alla volta di Trieste, con in valigia due macchine fotografiche, qualche vestito e il sogno di guadagnarsi da vivere come fotografo. Dopo una breve tappa a Singapore, arriva via nave in Australia. Non appena sbarcato viene arrestato. Ironia del destino, aveva un passaporto tedesco – il passaporto del nemico.
Nel suo studio fotografico di Mebourne, che inaugura nel 1946, si consuma l’incontro con la donna che lo accompagnerà per tutta la vita, sia privata sia lavorativa: l’attrice e fotografa June Browne, in arte Alice Springs.
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La collaborazione professionale tra Helmut e June è un’intensa e fruttuosa storia d’amore durata 56 anni. Ce la racconta il libro Us and Them (Taschen), un intimo diario fotografico della loro vita insieme che abbraccia ben cinque decadi, e dove sono confluiti molti dei ritratti che si facevano l’un l’altra.
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Newton si fidava ciecamente del giudizio di June, e sentiva la necessità di consultarsi spesso con lei sulle più svariate questioni legate al lavoro. Sappiamo con certezza che senza i suoi preziosi consigli alcune delle sue fotografie più celebri non sarebbero mai venute alla luce. Dopo la sua morte, nel 2004, per un incidente stradale nei pressi dello Chateau Marmont, sarà lei a prenderne in mano l’eredità e a ispirare l’opera della Fondazione Helmut Newton che, di comune accordo, avevano fondato a Berlino l’anno precedente.
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Il 1961 è considerato l’anno zero della carriera di Newton. Si trasferisce con la moglie a Parigi e inizia a collaborare con Vogue Paris: qui prenderà davvero forma il suo stile unico e irriverente, che non si presta a facili etichettature. Ci aiuta a descriverlo?
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Newton mescola elementi di glamour, moda, ritrattistica e documentario, e condisce il tutto con ingre-dienti piccanti come il voyeurismo e riferimenti all’universo fetish. Le sue foto celano inoltre metalivelli semantici che contribuiscono ad aumentarne l’appeal visivo, generando un alone di mistero. La sua opera, è imbevuta di riferimenti culturali: rielabora scene di film come Intrigo internazionale di Hitchcock e trae spesso ispirazione dall’arte: l’idea di accostare modelle vestite e svestite, sviluppata per la serie Dressed and Naked, è presa in prestito dalla Maya desnuda e vestida di Goya.
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White Women/Femmes Secrètes, il suo primo libro fotografico, fu pubblicato nel 1976, quando Newton aveva già 56 anni.
Durante i suoi shooting per le riviste, Newton era solito scattare per sé versioni più osé delle stesse immagini, chiedendo alle modelle di abbassare una spallina oppure di alzare una gonna... Le riunirà anni dopo in questa storica pubblicazione, con cui apre la strada alla “erotizzazione visiva” della moda, culminata nel 1980-1981 con le serie Sie Kommen, Paris (Dressed and Naked) e Big Nudes.
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Infrange un tabù, e con questi lavori introduce per primo il nudo radicale nella moda.
Riuscendo così in una missione apparentemente impossibile, e per certi versi paradossale: scattare foto di moda senza moda, con modelle completamente svestite. Il suo esempio è stato poi seguito da molti altri fotografi, come Daniel Josephson, Rasmus Mogensen, Szymon Brodziak, e registi: la scena finale del film Prêt-à-Porter di Robert Altman, dove vediamo modelle nude in passerella, ha un fortissimo sapore newtoniano.
Nel 1981, Helmut e June lasciano Parigi e si lanciano in una nuova vita tra Monte Carlo e Los Angeles.
Sono gli anni in cui le location delle sue foto cambiano radicalmente: dai lussuriosi e decadenti interni dei ’60 e ’70 si passa al cemento grezzo dei sottopassaggi urbani e dei garage. Come quello del suo condominio di Monte Carlo, dove Newton inscena interessanti dialoghi visivi tra modelle e automobili parcheggiate ad arte per creare l’effetto voluto.
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In California lui e June cominciarono a fotografare numerose star di Hollywood e celebrity, da Jane Birkin e David Hockney a Liz Taylor e Grace Jones. Vulcanico, in perenne evoluzione, Newton non si è mai fermato. Basta sfogliare i suoi libri più fam-si – White Women, Sleepless Nights, Big Nudes, Sumo – per rendersene conto: ognuno è profondamente diverso dall’altro. E la sua produzione degli anni 90, quando aveva più di settant’anni, è considerata una delle fasi più avanguardistiche e sperimentali della sua carriera!
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A dispetto di questa creatività esuberante, che lo ha portato a reinventarsi continuamente, è possibile riscontrare “punti fissi” nell’opera di Newton?
È sempre rimasto fedele al suo stile fortemente narrativo. Agisce come un direttore di scena, considerando le fotografie di moda dei frammenti di immaginarie pièce teatrali, con donne forti e indipendenti come protagoniste. Pur lavorando su commissione, è sempre riuscito a farlo per se stesso e a imporre ai suoi clienti idee e temi newtoniani. Con lui, per la prima volta, assistiamo a un vero e proprio ribaltamento di potere tra il fotografo e la casa di moda: l’ultima parola spetta al fotografo, e non più al committente del servizio. E questa è forse la sua più grande conquista.
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2. Ossessioni (le scarpe)
Christian Louboutin per “Vogue”
Com’è noto Helmut aveva una vera ossessione per le scarpe con i tacchi. Con tutta probabilità l’aveva maturata nella Berlino prima della guerra. So che, seppur giovanissimo, aveva frequentato la scena fetish della città, dove forse aveva avuto modo di mettere a fuoco la sua fascinazione per la figura sadomaso della donna dominante, o “dominatrix”.
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E, va da sé, con questa passione scoprì inevitabilmente anche quella per le scarpe con il tacco alto, che con la prima va a braccetto! Nella sua fotografia, le scarpe svolgono la funzione di piedistallo: servono a elevare la donna al rango di icona carnale, contribuendo a sacralizzarla. Ma soprattutto, con quel loro carattere fetish, servono a eccitare la fantasia dello spettatore.
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Nessuno come lui ha saputo dimostrare che una donna nuda con le scarpe è, paradossalmente, una donna ancora più nuda. Ricordo di avergli detto un giorno, durante un pranzo, quanto stupefacenti fossero per me i suoi enormi nudi di donna, e di avergli fatto i complimenti per quella nudità perfetta potenziata dal tacco alto.
Mi rispose che era un vero peccato che non ci fossimo incontrati prima di scattare quelle foto perché, dal suo punto di vista, non erano immagini pienamente riuscite. «Nessuno ha osato dirmelo, ma io non ho problemi ad ammetterlo a me stesso: quelle foto non sono venute bene come lei dice.
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La colpa è delle scarpe: non sono scarpe che spogliano, come avrei desiderato, bensì scarpe che, per quanto su una superficie esigua, coprono… Quando le capita di rivedere le fotografie, ci faccia caso e mi faccia sapere». Ed è vero, aveva assolutamente ragione: non solo non “svestivano”, quelle scarpe non erano neanche poi così belle. Ma l’impatto dell’immagine, nel suo complesso, è così potente, il corpo di quella modella così forte, che a quelle scarpe non si fa poi molto caso.
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