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    “INNAMORARSI? SIAMO IN TROPPI IN QUESTO CONTENITORE. È TROPPO AFFOLLATO PER RISPONDERE A UN SOLO AMORE” – LA LEZIONE DI VITA DI DRUSILLA FOER: “LA CHIUSURA AL PENSIERO ALTRUI FA DELLE PERSONE FRAGILI PERSONE ANCORA PIÙ FRAGILI E DI CERTI POTENTI DEI FALSI POTENTI. IL RISULTATO È CHE SI PERDE L’EMPATIA. ALLA FINE È MOLTO DIFFICILE CHE IL CATTIVO SIA LÀ FUORI. IL CATTIVO È SEMPRE DENTRO NOI. COSA MI FA ARRABBIARE? LA SCALTREZZA E LA FURBIZIA MI FANNO SCHIFO. LA COSA CHE MI FA PIÙ PAURA? PERDERE INTERESSE VERSO QUELLO CHE…”


     
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    Simone Marchetti per “Vanity Fair”

     

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    Quante persone ci sono dentro ognuno di noi? Quanti dolori, quante storie, quanti sogni? Quante diversità riescono a vivere nello spazio di un solo uomo o di una sola donna? «Non lo dica a me: siamo troppi in questo contenitore. È tutto così affollato qui dentro».

     

    Drusilla risponde sempre per le rime. Letteralmente. Non lo fa solo con intelligenza e indignazione. Lo fa con garbo e ironia. Costruisce castelli in aria, li fa a pezzi, sorride

    e poi ricomincia da capo. A volte è una bambina capricciosa, altre una principessa, altre una tigre, altre una soubrette d’altri tempi.

     

    E poi, certe volte, riesci persino a scorgere Gianluca Gori, il suo creatore, uno dei tanti abitanti di quel castello in aria che oggi chiamiamo Drusilla Foer. La incontriamo tra una pausa e l’altra di Drusilla e l’Almanacco del giorno dopo, il nuovo programma che conduce su Rai 2.

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    Buongiorno Drusilla.

    «Buongiorno a lei».

    Se non le spiace, vorrei partire da lontano. Mi racconta il suo primo ricordo?

    «Un’estate calda in campagna,dopo pranzo coi miei fratelli venivo obbligata a dormire. Ricordo che ero sdraiata accanto a mio padre e mi lamentavo perché faceva caldo. E lui, per tranquillizzarmi, faceva il rumore del vento soffiandomi con le labbra tra i capelli».

     

    Suo padre lavorava per il teatro?

    «Non il mio. È il padre di Gianluca Gori che lavorava per il teatro. Se vuole intervistare Gianluca deve prendere accordi con lui».

    A dire il vero vorrei intervistare tutti e due.

    «È una cosa che non ho mai fatto. Lo so, lei mi dirà, ma è il segreto di Pulcinella. Però è anche un tradimento. È come la madre che sa che suo figlio è omosessuale ma quando poi se lo vede a letto con un ragghettone sportivo, be’ è un’altra cosa...».

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    Le va di fidarsi di me?

    «Ci provo. Ma non faccia il furbo, i furbi mi fanno schifo».

    Chi è Drusilla?

    «Drusilla è un pensiero, un lavoro, un’estetica. E io porto un profondo rispetto per questa rappresentazione».

     

    Dove finisce Gianluca e dove inizia Drusilla?

    «Non ci sono limiti. Perché Drusilla non prende lo spazio di nessuno. È tutto naturale. Com’è naturale che nell’Amleto di Shakespeare a un certo punto Polonio muoia. Com’è naturale che nel Rosenkavalier di Strauss a un certo punto la Marescialla se ne vada. Qui dentro ognuno è al suo posto. E i pensieri vengono da un unico assemblamento di valori».

    Cosa le sta a cuore?

    «La lealtà. Perché la lealtà è la peggior nemica della vanità. Per essere leali bisogna non camuffarsi. E non camuffarsi sotto un’architettura estetica e poetica come la mia penso sia il mio più grande talento».

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    La sua è una maschera come quella del teatro classico?

    «Vede, le maschere non nascondono. Rendono solo più fruibile il contenuto. È come quando dici “ti amo” a una persona in un modo goffo o distratto perché non hai il coraggio di guardarla negli occhi. Le maschere del teatro greco sono una sorta di riduttore dell’intensità del loro interno. Permettono di ascoltarle senza sentirsi minacciati».

     

    Quindi Drusilla, una stronza aristocratica ben pettinata, fa sentire al sicuro?

    «Ah sì, credo proprio di sì. Vede, i personaggi spaventano più delle persone ma li accogli più delle persone. Prenda Paperino, un tizio con una struttura famigliare a cui tutti sfuggono, che convive con i tre nipotini. Il tutto in un’America puritana. Ai personaggi è concesso tutto. Di sbagliare, di confessarsi, di esporre una poetica. Alla Principessa Turandot dell’opera di Puccini si permette di essere malvagia e poi la si perdona per il suo destino. Se fosse stata un’imperatrice vera probabilmente sarebbe stata un personaggio negativo».

     

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    In Rai conduce un programma classico, tradizionale. Ma lei affronta tutto con spirito contemporaneo, nuovo, senza nostalgie.

    «Perché il dovere di tutti è avere un rapporto leale con tutto quello che il momento ci pone davanti. Si chiama contemporaneità. Essere nel tempo, nelle cose che accadono, nei sentimenti che scorrono. Le faccio un esempio. Quando a un certo punto, anni fa, l’Occidente ha rifiutato la sua cultura, allora si è affidato all’Oriente e sono venuti fuori stilisti come Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo, e contemporaneamente si sono svuotati i ristoranti coi quadri di pagliacci e ci siamo abbuffati di cibo cinese e sushi, togliendo tutti i cassettoni della nonna da casa per mettere divani bianchi e pareti color caffellatte con vasi con dentro dei rami secchi pensando di essere astratti. Ci vuole lealtà. E chiedersi: che ci sto a fare qui? E questo significa mettersi in gioco nel momento in cui si vive. La contemporaneità è una storia di lealtà intellettuale ed emotiva».

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    Come mai, secondo lei, la contemporaneità continua ad avercela con le donne, con la loro libertà, col loro diritto ad autodeterminarsi, per esempio, col diritto all’aborto?

    «Sempre per un fatto di lealtà. È da sempre così: la storia delle società ha un problema di rapporto con l’individuo. Perché dalla preistoria gli stereotipi ci tranquillizzano. Prenda il mito dei matrimoni, dei rapporti di lunga data delle nostre nonne. Forse, le nostre nonne erano in grado di sostenere dei rapporti magari inqualificabili perché la società le tranquillizzava. La società diceva: gli uomini sono tutti così, le donne sono tutte così ed è giusto che i primi facciano quello che vogliono e le seconde subiscano. La società ce l’avrà sempre con le donne perché rivedere lealmente la figura femminile presuppone di scalzare altre visioni dell’uomo che sono quelle che ci hanno tranquillizzato da secoli».

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    Come si spiegano questi valori in televisione?

    «Tu devi sempre, sempre, sempre far finta di essere all’ Accademia d’Atene. 400 avanti Cristo forever. E sia chiaro: la modestia di chi ti circonda non giustifica mai la modestia di quello che compi. Arrivando alla Rai: io sono giunta qui con un privilegio enorme. Mi hanno detto: fai quello che vuoi. E non ho avuto nessun limite. È una cosa che mi arrapa da morire. Perché da una parte mi impegna. Ma dall’altra non posso dare la colpa a nessuno di quello che ne verrà fuori. Solo a me. Di questo, mi consenta, devo dire grazie al direttore Stefano Coletta, un uomo illuminato, un uomo che vuole bene a questo lavoro».

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    Lei sostiene che bisogna trattare se stessi come figli, che bisogna imparare a diventare i genitori di se stessi. Cosa significa?

    «Trattarsi come figli propri vuol dire darsi la possibilità di perdonarsi. E perdonarsi è una figata pazzesca. Vede, siamo troppo infangati dentro noi stessi. Troppo trattenuti dalle nostre fragilità, tenuti in piedi dai nostri talenti e dalle nostre capacità. Sa cosa succede quando hai un figlio? Esci da te stesso e ti occupi di qualcun altro perché quello è un altro futuro, non è il tuo di futuro. A me succede di fare questo giochino quando ho paura: mi immagino come un piccolo Pierino di cui sono la madre e a cui dico “stai tranquillo”».

     

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    A Sanremo lei non ha parlato di diversità, ma di unicità. Dell’unicità di ognuno di noi e di chi odia questa differenza.

    «Che cosa faticosa l’odio, non trova? È un sentimento così nobile, tra l’altro. Ci fa individuare esattamente cosa vogliamo e cosa non vogliamo. Io su questo sono violentemente categorico. Trovo incomprensibile il non rispetto del pensiero altrui. Specie nei politici. Mi domando che rispetto di se stessi abbiamo coloro che non sono in grado di rispettare l’unicità degli altri. Si vietano una quantità di visioni, la possibilità di cambiare opinione, rotta, cose che nella vita sono utilissime. Chi non capisce, chi non rispetta, chi non ascolta l’unicità degli altri è una persona sfortunata. Non perché non aderisca al mio pensiero. Ma perché non si concede la libertà di farsi ispirare dal pensiero degli altri. È una prigionia che non auguro a nessuno».

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    Quanto è importante oggi difendere questi valori?

    «Ci sono cose su cui non sono disposto a transigere. Il razzismo, ovvero il pregiudizio in base a un concetto inesistente come la “razza”. Il classismo, il pregiudizio rispetto all’estrazione sociale di una persona. Questi sono per me valori imprescindibili. Detto questo, se arriva un fanatico e mi prova a spiegare un pensiero o una poetica

    io sono qui, che provi a convincermi con la sua logica! È la chiusura alla logica altrui a spaventarmi. La chiusura al pensiero altrui fa delle persone fragili persone ancora più fragili e di certi potenti dei falsi potenti. E il risultato è che si perde l’empatia verso gli altri. Perché alla fine è difficile, molto difficile che il cattivo sia là fuori. Il cattivo è sempre dentro noi».

     

    Si è mai innamorato qualcuno di Drusilla?

    «Sì, perché questo è un contenitore che può accogliere molte proiezioni».

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    L’ha sorpresa?

    «Mah, sorprendermi... Se ti innamori di un soggettino così...».

     

    Ha mai pensato di corrispondere?

    «No. Siamo in troppi in questo contenitore. È troppo affollato per rispondere a un solo amore. E i parametri di coloro che abitano in questo contenitore sono molto diversi».

    La leggerezza, l’ironia sono tra le sue più grandi doti.

    «Quando ti butti da una montagna hai due possibilità: affronti meravigliosamente il vuoto e ti fracassi oppure scendi piano piano in modo buffo. La lievità mi diverte e mi porta anche in profondità. E poi sono le cose cretine quelle che mi fanno davvero ridere».

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    Mi fa un esempio?

    «I marchi di moda che mi vestono. Sono un soggetto con proporzioni insensate e mi vesto nello stesso modo da quarant’anni. Però se domani Donatella Versace mi facesse un vestito in maglia di metallo o Valentino un abito rosso (rosso, perché, diciamolo, fucsia chi lo vuole? Io lo voglio rosso!) sarei divertita come una bambina a cui hanno regalato una bambola nuova. Ho un rapporto di stupore verso le cose che per me hanno valore. E più le cose hanno valore e più quando succede qualcosa di sgangherato io mi diverto e mi stupisco. Perché è cretino. Come quando una si veste da sera e poi inciampa sullo strascico. TO-TO- TOMP! L’inadeguatezza mi fa tanto allegria».

     

    Cosa invece la fa arrabbiare?

    «La scaltrezza e la furbizia mi fanno schifo. Essere furbi è una trovata di chi ha l’abitudine ad alimentare la propria intelligenza con le scorciatoie. E le scorciatoie mi innervosiscono. E poi, vuoi mettere, se prendi il tratto breve ti perdi pure la bellezza del percorso».

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    Quali divi, quali dive l’hanno ispirata?

    «La musicista statunitense Diamanda Galás. Perché è drammatica, perché è violenta, perché è leale. Delia Scala. Dio, che donna chic e luminosa. Il pensiero spietato, lucido, senza scorciatoie di Pierpaolo Pasolini. E l’orrido modo di cantare di Marlene Dietrich perché pur non avendo nessuna dote vocale è musicalissima. Amo infine il cinismo di Petrolini e lo strazio dell’ouverture del Tristano e Isotta. A ben vedere, mi piacciono tutte le cose assertive, cose che non hanno indecisioni. In realtà, ammiro gli artisti che espongono le proprie fragilità senza timori».

     

    Chi lo sa fare oggi?

    «Lady Gaga».

    Ora le faccio due nomi di donne che ha incontrato. Me li hanno suggeriti alcuni suoi amici, lo ammetto. È pronta? Sei pronto? Siete pronti?

    «Proviamo».

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    Mila Mastrorocco.

    (Per la prima volta Drusilla guarda in basso e i capelli bianchi le coprono il viso. Resta in silenzio per molti secondi e poi, con un filo di imbarazzo, si asciuga le lacrime dagli occhi).

     

    Ripeto: Mila Mastrorocco.

    «Ho sentito. Lei è un pazzo, lo sa?».

    Ogni tanto qualcuno me lo dice. Ma non stiamo parlando di me...

    «Mila Mastrorocco è la donna che mi ha insegnato a guardare. È stata la mia professoressa di Storia dell’arte. Pensi che mentre insegnava si cantavano con lei le canzoni della Mala. Mi ha insegnato a guardare un quadro, a capire la narrazione, ho imparato da lei tutto sulla capacità di rappresentazione. Mila Mastrorocco è uno degli incontri più centrali della mia vita».

     

    Altro nome, si prepari: la principessa Giorgiana Corsini.

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    «Giorgiana è la donna che mi ha tranquillizzato sui giudizi che avevo verso me stesso circa l’essere diretti. Mi ha fatto capire l’importanza di essere leali, diretti, senza pregiudizi, senza la minima forma di classismo. È la persona a cui devo il mio ritorno al teatro. Mi ha poi restituito il valore della forma nel comportarsi. Diretti ma con forma. Perché è sempre premiante. Anche quando porta a una rottura, perché vuol dire che quella rottura ti servirà. Giorgiana ha vissuto in modo spettacolare e se n’è andata in modo divino. È morta nuotando. Stava arrivando alla seconda boa e ha detto alla figlia che non ce la faceva. Mentre saliva in barca ha avuto il primo infarto. Arrivata a terra, c’era tutta l’unità coronarica della Maremma ad aspettarla. Appena li ha visti ha detto “Non mi toccate, sto beniss...” ed è morta. Qualche tempo fa, è apparsa in sogno a sua figlia. Le ha detto: “Guarda, Fiona, qui si sta benissimo, se lo sapevo, morivo prima”. È proprio un suo pensiero, sua figlia non l’avrebbe mai potuto formulare».

     

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    Lei crede nella vita dopo la morte?

    «Oddio, alla noia delle nuvoline e dei santi? Non lo so, non ho un’idea chiara. Ma sono sicura, anzi sicurissima che noi lasciamo grandissime cicatrici, nel senso che possiamo lasciare ferite guarite con la nostra esistenza».

     

    È vero che Drusilla, in fondo, ha paura di non essere all’altezza?

    «Sì, è vero. Ho paura che arrivi il momento in cui diranno: “Ah, ma allora non sa fare niente”. È un timore simile a quando ti innamori e all’inizio ti senti figo ma poi

    pensi, oddio adesso scopre chi sono veramente e poi scappa. Per questo, a volte sono poco progettuale. Sono stato un art director per agenzie di pubblicità. Poi pittore. Poi fotografo. Sempre con successo. Però poi ho smesso. Il mio tema più grande è prendere la responsabilità dei miei talenti».

     

    I suoi genitori hanno lavorato entrambi nel teatro. È stato importante avere vicino due figure così?

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    «Importantissimo. Parlare con loro di teatro, di arte, di cosa mi piace o non mi piace era naturale. Ma come fanno certi genitori a dire ai loro figli “che schifo di musica ascolti!”. Devono invece chiedere perché l’ascolti, perché ti piace. Bisogna crescere i figli con un senso di amore, di ascolto, di accoglienza».

     

    Sua madre è viva, suo padre scomparso. Cosa dicono o direbbero di lei?

    «Mia madre è stupita. Non la si può certo definire una donna di sinistra, ecco, però ha brandito la copertina dell’Informatore Coop con la mia foto e l’ha fatta vedere a tutti. Ad oggi, è la cover che mi ha lusingato di più. Mio padre, se fosse vivo, mi guarderebbe a distanza, sorridendo con un filo d’orgoglio».

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    È innamorato?

    «Non ho un compagno, ma resto innamorato di tutti i compagni che ho amato. Del resto, li ho talmente sfiniti! Io penso che in amore vince chi resta dentro ciò che ha sentito, ciò che ha provato. Perché chi ama si prende sempre la fetta più grande. Ti faccio un esempio. Quanti di noi, per anni, si sono aggrappati alle pareti di vetro facendo alberi di Natale tutti neri con fili d’argento o esponendo un ramo esotico con attaccate solo palline di carta riciclata dagli Indios? Io voglio i nomi e cognomi delle persone che entrando a Natale a casa della propria madre e vedendo le palle colorate e i troiai sull’albero non dicono: “Ecco, questo è un albero di Natale!”. Non quella roba che hai a casa e che sembra una vetrina di Dior del 1983. Quando ti innamori di quel primo albero, resti innamorato per sempre».

     

    Che romantica.

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    «Non sono romantica. Né sentimentale. Credo nelle esperienze emotive».

    C’è qualcosa che le fa davvero paura?

    «Perdere interesse. Verso quello che sento e verso quello che sta là fuori. Mi fa più paura questa morte di quella biologica. Perché è in quel momento che arriva la depressione».

     

    Le è capitato?

    «Sì. Ci sono stati momenti in cui c’era una gran confusione nella mia testa. Come la classica storia della bottiglia con acqua e sabbia che se scuoti vedi solo un gran casino». Un’ultima domanda. Chi la conosce bene dice che possiede il dono della riconoscenza. Che cosa significa?

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    «Sono riconoscente perché ho un problema con la simmetria. L’idea, per esempio, di avere un camino senza due vasi cinesi (identici, sia chiaro) ai lati mi devasta il cervello. Dove si crea un vuoto va ristabilito un pieno. E in questo c’entra la generosità che, per

    essere goduta, va trattata come un sentimento signorile. Quando la si dà non si deve pretendere nulla indietro. Quando la si riceve, si deve pretendere da noi stessi di darla sempre indietro».

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