Luigi Mascheroni per ilgiornale.it
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Jeff Koons, 66 anni, otto figli, il record di artista più quotato del mondo, dalla Pennsylvania a Firenze passando per un rivoluzione del sistema dell'arte, entra a Palazzo Strozzi in abito blu, camicia bianca, scartando un chewing gum, e chissà se avrà mai fatto le bolle da piccolo. E vedendo la sua enorme scultura che riempie il cortile, una Scimmia blu in acciaio inossidabile lucidato a specchio lunga sei metri e pesante cinque tonnellate, esclama «Fantastic!».
E non si sa se lo dice alla statua, a Palazzo Strozzi o a se stesso. Di certo perfezionista fino allo stremo, gentile, pacato, mediatico, determinato, una parola per tutti e sorriso disarmante oggi è contento come un bambino. Al quale la città ha riservato uno speciale party di benvenuto pieno di balloons, fiori, giocattoli, specchi e animali in scala monumentale. È da qui, dai palloncini fatti a forma di animale con cui si gioca da piccoli, che inizia il grande gioco dell'arte.
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Un intero palazzo a disposizione, simbolo di quell'Umanesimo a cui guarda da sempre il suo lavoro di artista contemporaneo, otto grandi sale spogliate di tutto per l'occasione, trentatré opere, un percorso segnato dalla «lucentezza» e mille diramazioni fra business e biologia, metafisica e acciaio inox, superfici riflesse e significati reconditi, cultura d'élite e luci al neon, neo pop e classicismo, consumismo e macdonaldizzazione del mondo, alto e basso passando per la middle-class americana. Qui dentro ci sono il vuoto e il Tutto.
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Welcome, direbbero gli americani, alla fantastica mostra di Jeff Koons, titolo illuminante: Shine a Palazzo Strozzi di Firenze (fino al 30 gennaio 2022), dove il concetto di Shine, se letto all'inglese, «lucentezza», deve essere inteso come ambiguità tra splendore e bagliore, ma se letto in un'accezione tedesca, Schein, «apparenza», anche fra essere e apparire.
Jeff Koons è l'artista più mediatico, controverso, famoso e quotato al mondo (ecco qui una versione, dal museo di Chicago, del suo Rabbit di acciaio inossidabile che nel 1986 costava 2500 dollari e che nel 2019 gli sceicchi del Qatar hanno comprato per 91 milioni) ma che appare al grande pubblico molto più «semplice» di quanto in realtà sia. Perché è vero: qui in mostra c'è tutto il Jeff Koons che ti aspetti - la monumentalità, l'edonismo degli anni Ottanta, i giochi, i dollari, la lucentezza di un mondo che conosciamo bene - ma c'è anche il Jeff Koons che non ti aspetti: l'eternizzazione della plastica chi si affloscia, la leggerezza della Tradizione, un monumento d'acciaio al nostro essere effimeri, qualcosa di oscuro e misterioso, la «luccicanza», Shining... La mostra è bellissima, e inquietante.
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Curata da Arturo Galansino (uno dei nostri cervelli di ritorno: fra il 2013 e il 2015 è stato curatore alla Royal Academy of Arts di Londra, oggi è direttore di Palazzo Strozzi) e da Joachim Pissarro (sì: è il pronipote), costosissima (per il trasporto e la movimentazione delle opere, per le assicurazioni e la lucidatura sul posto) e con più livelli di lettura (c'è chi godrà il lato spettacolare e chi quello dei riferimenti alla storia dell'arte dal Neolitico al Neo-Dada), Shine continua la serie di mostre della maison d'arte fiorentina dedicate ai più importanti protagonisti del contemporaneo («Firenze è sempre stata grande quando è stata modernamente antica e anticamente moderna» è la frase di Giorgio Vasari diventata il mantra del sindaco Dario Nardella), ma pur raccontando 40 anni di carriera non è una retrospettiva di Jeff Koons.
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Il percorso non è in ordine cronologico, ma si procede per temi, poi alcune performance sono volutamente dimenticate (meglio non citare né ricordare le opere del periodo Ilona Staller), i filoni si intrecciano, gli anni si accavallano, le domande anche (shine significa riflettere qualcosa o riflettere su qualcosa?), le sculture e le installazioni giocano fra loro, con il Tempo, con la storia dell'arte (Koons è figlioccio dei ready-made di Duchamp, ma ha anche studiato e amato Donatello, Verrocchio, Cellini, Bronzino...) e con mille citazioni.
Opere in mostra assolutamente da citare: il grande Sacro Cuore impacchettato della prima sala, ispirato da un piccolo ex Voto comprato in farmacia e diventato cuore pulsante di un'epoca pop. La serie high-tech «Celebration» (1994) con un Balloon Dog alto tre metri (puoi vederci solo un cane fatto con palloncini, ma anche qualcosa di ieratico, il Cavallo di Troia, un totem, un oggetto erotico - guarda la coda fallica - la tua infanzia, la fusione fra maschile e femminile: che sesso ha il cane? e se fosse fluido?). La serie «Popeye» (2002) con i gonfiabili da piscina come Dolphin e Lobster, l'aragosta in acciaio inossidabile con i baffi di Salvador Dalí.
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L'Incredibile Hulk che è incredibile perché sembra un gonfiabile e invece è in bronzo policromato con cinque giganteschi tromboni in ottone avvolti attorno al corpo (è un gioco, ma anche un supereroe, un personaggio mitologico che lotta con i serpenti e l'Idra dalle cento teste, una divinità orientale, un dio guardiano che fa rumore per annunciare il suo arrivo...). Una maestosa luccicante rossa Magna Mater. E, là in fondo, verso la fine, le Gazing balls blu posizionate sulle Veneri metalliche che mimano l'antico e sulle tele che copiano Tintoretto, Rubens e Tiziano: lì, dentro quelle sfere, si specchia la storia del passato e del presente. Si specchia la carriera di un artista Narciso. Si specchiano le mille contraddizioni del sistema dell'arte. E ti specchi tu, visitatore. Che non resisterai a farti un selfie. Si chiama gioco. E anche arte.
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