Luigi Ippolito per corriere.it
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La grande sala bianca all'ultimo piano della Newport Street Gallery è una fornace. Il caldo è quasi insostenibile, lungo le pareti sei bracieri ardono protetti da teche di vetro. Il silenzio è totale, come in attesa di una cerimonia religiosa: finché appare lui, Damien Hirst, l'incanutito enfant terrible dell'arte contemporanea. È vestito con una tuta da operaio argento fosforescente, accompagnato da quattro assistenti - tre uomini e una donna - in tuta arancione. Il rito sacrificale ha inizio: Hirst e i suoi prendono a una una le sue opere d'arte numerate e le danno alle fiamme. E al primo incenerimento, scatta l'applauso.
«Non sto bruciando arte - proclama lui in estasi - perché questa è una trasformazione, un compimento». La performance choc è l'acme di The Currency (La valuta corrente), una collezione di 10 mila Nft ( non fungible tokens ), lanciata nel luglio dell'anno scorso, cui corrispondono 10 mila opere d'arte fisica originali.
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Ai collezionisti è stata data la scelta di tenere gli Nft o di scambiarli con l'opera materiale sottostante: alla conclusione del periodo di scambio, il 27 luglio scorso, 5.149 acquirenti hanno deciso di tenere l'opera «reale», mentre 4.851 hanno optato per gli Nft (ognuno del valore iniziale di 2 mila sterline). Ora Hirst ha iniziato a bruciare le opere materiali non reclamate, così come vengono distrutti gli Nft non scambiati: un processo che ha luogo ogni giorno, a partire da ieri, e che si concluderà a fine mese. Il calcolo è che verrà «immolata» arte per 10 milioni di sterline (oltre 11 milioni di euro al cambio attuale): ma l'idea che c'è dietro è appunto che l'opera materiale in realtà non muore, ma continua a vivere in uno spazio virtuale. E già qui vediamo collimare due dei fenomeni più controversi dell'arte contemporanea, ossia la pratica di Hirst e gli Nft, i certificati di proprietà digitale che stanno proiettando l'arte nel mondo virtuale e delle criptovalute.
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Così come il titolo, The Currency , non può non rimandare alla monetizzazione totale del prodotto creativo (e di quello di Hirst in particolare, accusato spesso di fare operazioni puramente commerciali).
I singoli fogli che compongono The Currency sono stati creati manualmente nel 2016 usando smalto su carta fatta a mano: ognuno è numerato, titolato, timbrato e firmato da Hirst sul retro. E un ulteriore elemento di autenticità, oltre a un «microdot» e a una filigrana, è un ologramma che contiene un ritratto dell'artista. I titoli sono stati generati applicando l'Intelligenza Artificiale ad alcune delle canzoni preferite di Hirst, mentre i motivi riprendono i dipinti a punti colorati che sono diventati uno dei marchi di fabbrica dell'artista britannico: su ogni foglio, nessun colore è ripetuto due volte, con i punti che appaiono disposti come particelle o atomi. Hirst vede The Currency come un'opera alla quale la gente partecipa comprando, vendendo e scambiando i lavori: e durante la mostra è stata lanciata anche una pubblicazione, «Le Cronache di The Currency», che documenterà le esperienze della comunità durante il progetto (e infatti ieri ad accalcarsi alla galleria c'era tutta quella che veniva definita come la «comunità degli Nft», un po' setta segreta e un po' banda di creduloni). Ma The Currency rappresenta anche il culmine della fascinazione dell'artista per la tecnologia, che risale ai tempi dei suoi celebri squali in formalina: il mondo virtuale degli Nft è diventato il successivo passo logico della sua esplorazione, che in questo caso coinvolge le idee di valore, proprietà e collezionismo.
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E tuttavia, come ha osservato la critica d'arte Laura Cumming sull'«Observer», «da lungo tempo Damien Hirst ha fatto del mercato il suo medium e il suo messaggio: di questo si tratta in T he Currency , dell'arte come denaro e del fare denaro con l'arte». E se è vero che il valore della Ragazza col palloncino di Banksy è schizzato in alto dopo che l'opera era stata tagliuzzata automaticamente durante un'asta nel 2018, vedremo ora dove arriverà la parte «superstite» della «Valuta» di Hirst.
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