Tiziana Lapelosa per “Libero quotidiano”
paolo villaggio fantozzi
Ah, la Cassazione. Se nel lontano 1980 avesse emesso una sentenza come quella dei giorni scorsi, il povero Ragionier Fantozzi non avrebbe pagato caro per la frase "Il megapresidente è uno stronzo", pensata, apparsa nel cielo e arrivata, appunto, a chi non di dovere. Un pensiero segreto, il suo, come segreto lo è per tanti dipendenti, reso pubblico per magia.
Con esito diverso, a distanza di quasi 40 anni, quel capolavoro-profezia di Paolo Villaggio e Neri Parenti, "Fantozzi contro tutti", si è materializzo: una guardia giurata chiama più e più volte al centralino della sua azienda di vigilanza per avere il Cud e procedere, quindi, alla dichiarazione dei redditi. Ma niente. Incassa un insuccesso dietro l' altro. E più sale l' attesa al centralino e più lievita il nervosismo per una operazione che dovrebbe essere il più semplice possibile.
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la burocrazia Ma la "burocrazia" telefonica non guarda in faccia a nessuno, figuriamoci al povero dipendente che, alla fine, sbotta per la disorganizzazione e l' inefficienza del suo posto di lavoro e se ne esce con un «Che azienda di merda!».
Espressione, questa sì, che, a differenza del Cud, arriva veloce ai vertici della ditta con il risultato che il "Fantozzi" reale viene licenziato. Massimiliano C., questo il suo nome, perde il posto e va ad infittire la colonia dei disoccupati.
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«Lei non deve pensare. Questo è il suo errore», dice nel film il megapresidente a Fantozzi. Nemmeno Massimiliano avrebbe dovuto pensare, ma soltanto lavorare, senza troppe pretese. In fondo, che sarà mai questo Cud, perché tanta fretta?
Azienda e lavoratore licenziato salgono quindi sulla ruota della giustizia che, gira e rigira, dà ragione alla guardia notturna. Lo fa anche la Corte di Appello di Roma nel 2017.
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Nello spiegare l' illegittimità del licenziamento, fa notare che «l' espressione utilizzata non appariva suscettibile di arrecare pregiudizio all' organizzazione aziendale in quanto del tutto priva di attribuzioni specifiche e manifestamente disonorevoli tali da determinare il venir meno, ragionevolmente, del rapporto fiduciario o di essere lesiva del decoro dell' impresa pur avendo tale espressione usata travalicato i limiti della correttezza».
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La Cassazione, pochi giorni fa, è andata oltre mettendo un punto alla diatriba. "Il lavoratore non ha l' obbligo di stimare il datore di lavoro", questo il succo della sentenza numero 12786. Per gli ermellini il lavoratore non deve stimare il proprio "padrone", ma è obbligato alla correttezza. Cioè, se una persona lavora e fa il proprio dovere, chissenefrega se non stima il capo.
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il contratto Inoltre, la stima nei confronti della persona o dell' impresa per cui si lavora non è prevista per contratto - che invece prevede di osservare i doveri di fedeltà e diligenza -, a meno che non sia specificato in qualche postilla. Certo, si potrebbe sempre "non pensare", come spiega il megadirettore a Fantozzi. E in qualche luogo di lavoro succede che in maniera molto subdola si spingano i dipendenti a "fare" e non "pensare". Ma senza nessuna postilla messa nera su bianco.
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Che forse è anche peggio. In ogni caso, la guardia non tornerà a lavorare per «l' azienda di merda» (per effetto della legge Fornero), ma sarà indennizzata. Il caso è chiuso e non osiamo immaginare cosa sarebbe successo se fosse stato il datore di lavoro ad apostrofare come "lavoratore di merda" un dipendente. Girotondi, cortei, dichiarazioni a difesa della categoria dei lavoratori sarebbero spuntati come funghi...
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Però, l' idea che il Ragionier Fantozzi "alla fine dell' estate, di fronte alla ripugnante prospettiva di un nuovo anno di lavoro, fu preso dalla sua solita crisi di insofferenza e di ribellione" e mandò al diavolo il suo capo, ci piace. Una rivincita meritatissima
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