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Marco Giusti per Dagospia
Se seguite il Rome Film Fest, meglio che vediate, nella rassegna Best of 2023, “The Zone of Interest”, il bellissimo nuovo film di Jonathan Glazer, che ritorna al cinema dopo dieci anni di assenza, visto che l’ultimo film era il fantascientifico “Under the Skin” con Scarlett Johansson in versione aliena mangia-uomini. Anche perché uscirà solo a febbraio del 2024 sotto Oscar. In cerca di un premio che gli è stato negato a Cannes, dove non era piaciuto molto alla giuria. Troppo duro e freddo.
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Ma è un’opera attenta e importante, sotto tutti i punti di vista, questo “The Zone of Interest”, tratto dal romanzo del 2014, dallo stesso titolo, di Martin Amis, morto proprio a maggio scorso durante il festival, meravigliosamente fotografato da Lukasz Zal come fosse una fotografia dell’epoca col colore dell’Ufa, che ci riporta dritti a Auschwitz.
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Ma la chiave non è farci vedere ancora una volta gli ebrei che soffrono e muoiono come accadde in “Son of Saul” di László Nemes, che nel 2015 vinse il Grand Prix della giuria a Cannes e poi l’Oscar al miglior film straniero, ma come vive nella sua bella casetta il comandante del campo, Rudolf Höss, interpretato da Christian Friedel, che avevamo conosciuto ne “Il nastro bianco” di Michael Haneke, assieme a sua moglie Hedwig, interpretata dall’indimenticabile Sandra Hüller di “Toni Erdmann” e che ritroverete in “Anatomia di una caduta” di Justine Trier, e i loro figlioletti.
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Il film si apre appunto, dopo il titolo e un’ouverture a nero di grande effetto di Mica Levi, su una scena di famiglia tedesca sul fiume a prendere il sole e fare bagni, gli Höss. Il montaggio di Glazer è preciso e fa un lavoro sull’immagine minuzioso. Auschwitz, coi suoi camini sempre in funzione, ci viene mostrata solo nelle scene successive dietro il muro della casetta del comandante. E l’orrore, la banalità del male, ci vengono presentati piano piano nella quotidianità della famiglia e dei suoi discorsi.
Hedwig parla con delle amiche e vengono fuori i diamanti trovati in un tubetto di dentifricio di una ebrea, la pelliccia tolta a un’altra, le sottovesti delle donne bruciate, la promessa di un po’ di polvere come concime da dare alla serva polacca. Non c’è una vera e propria storia. Se non forse il fatto che Rudolf è stato trasferito e la moglie non vuole lasciare la casa dei suoi sogni. Una casa dalla quale sua madre fugge a gambe levate dopo averci passato una notte vedendo i camini dei forni crematori sempre in azione. Rudolf, assieme a un gruppo di ingegneri della ditta appaltatrice del campo, mette a punto un complesso di forni a ciclo continuo, in modo da eliminare, sentiamo, i 70.000 ebrei ungheresi che stanno arrivando.
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Glazer ha ricostruito in Polonia la casa e il campo, è attento al minimo dettaglio. Ci mostra un orrore che, sì, potrebbe ripetersi nella sua forma familiare da una parte e industriale dall’altra, come dimostra la logica della guerra attuale, il mercato delle armi e quello previsto della ricostruzione. E l’odio che dimostrano Hedwig e le amiche per gli ebrei, un odio di classe. Non è un film tanto diverso, nel suo aspetto politico e nel modello narrativo, di “Under the Skin”, anche se Peter Bradshaw su “The Guardian” ha tirato in ballo la vecchia critica di Jacques Rivette sul “carrello” di “Kapo” di Gillo Pontecorvo, cioè la pornografia cinematografica nel mettere in scena l’orrore di Auschwitz.
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Lo stesso discorso, per molti, poteva valere anche per “Son of Saul”. Ma davvero non mi sembra il caso. Glazer ha in mente un cinema diverso, più vicino a quello di Haneke e comunque molto artistico nella composizione dell’immagine e nel montaggio. E’ semmai troppo freddo. Ma è un film di grande livello.
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