gianluca farinelli
Marco Giusti per Dagospia
Arieccoci alla Festa del Cinema di Roma. La prima sotto la nuova presidenza di Gianluca Farinelli e la nuova direzione di Paola Malanga. L’ex-direttore, Antonio Monda, si è accontentato quest’anno di presentare il suo ultimo libro alla Casa del Cinema proprio due giorni prima dell’inizio delle proiezioni.
paola malanga
Ovviamente piove. Il minimo con Ignazio La Russa appena eletto Presidente del Senato con 19 voti dell’opposizione. L’evento più atteso, ci dicono all’Auditorium, sarà l’arrivo di Maurizio Turone per la prima del film più atteso dal pubblico romanista, il documentario “Er gol de Turone era bono”, il 23 ottobre. Prodotto dal laziale Giannadrea Pecorelli.
Ma lo sanno tutti, mi confermano, va bene così. Inoltre è un amico e ha diretto uno dei rarissimi film sul post-anni di piombo, “Fuga senza fine”. Credo di essere uno dei pochi ad averlo visto.
nanni moretti pierfrancesco favino il colibri
Insomma, sveglia alle sette, stamane, per vedere il film di apertura del festival, “Il colibrì”, diretto da Francesca Archibugi, tratto dal romanzo omonimo di Sandro Veronesi, sceneggiato da Laura Paolucci, Francesco Piccolo e la stessa Archibugi, bella foto di Luca Bigazzi, bella musica di Battista Lena, con un cast da cinepanettone di sinistra, Pierfrancesco Favino, che parla toscano solo per metà film, Berenice Bejo in versione femme fatale, Kasja Smutniak in versione più squinternata, Nanni Moretti come suo psicanalista giustamente preoccupato, che parla proprio come Nanni Moretti (“Sono…. Dario… Carradori… lo… psicanalista… di… sua… moglie… lei… è… in.. grave… pericolo…”), Laura Morante eterna mamma incazzata, Benedetta Porcaroli, eterna figlia problematica, Sergio Albelli come marito e padre, Massimo Ceccherini sdoganato nel cinema d’autore in un ruolo sempre marcio ma divertente, Blizzard il portasfiga.
il colibri film
Un filmone, un polpettone psicologico che, come “Caos calmo” (celebre per averci mostrato Moretti senza mutande che scopava con Isabella Ferrari) è trainato da un romanzo che porterà al cinema magari un po’ di spettatori in più rispetto a “Siccità” di Paolo Virzì. Non si rivolge solo agli spettatori di Prati-Parioli-Pinciano ma sconfina sul Tirreno, Argentario?, coi ricchi fiorentini in vacanza.
il colibri film
Politicamente? No. Politicamente, almeno apparentemente, non c’è nulla. Come un discorso di Letta o di Calenda. Assistiamo solo a una serie di terremoti sentimentali, lei ama lui ma non scopa con lui e magari scopa col fratello ma lui lo saprà solo quarant’anni dopo, l’altra lei lo tradisce con tutti, anche con la maestra di yoga sul tappetino e lui subisce perché non riesce a prendere una decisione, a muoversi, per non parlare di una serie di tragedie familiari con suicidi, chemio, malanni di ogni tipo.
il colibri 1
Magari se ne poteva fare una serie. Magari ci hanno già pensato e sa ve bene o benino siamo pronti a farla. Così, compresso dentro un film da due ore, il film funziona, con tutti i suoi sbalzi temporali, e la sua stesura non lineare, solo fino a un certo punto. Metà? Tre quarti? Non fai a tempo a essere affezionato a un personaggio che diventa subito vecchio.
Ma a un certo punto iniziano a essere tutti vecchi e poi molto vecchi, coi mascheroni alla Favino con le rughe finte, le borse, gli occhi iniettati di sangue, Nanni truccato da vecchio coi capelli bianchi come Alberto Sordi in “Nestore l’ultima corsa” che fa il giudice delle gare di tennis (“Non… avrei… mai… voluto… vedere… queste… immagini”), o finisce a Monaco a parlare con il nuovo medico della Smutniak. Si salva solo Ceccherini perché non invecchia, fa il suo personaggio e finisce lì. Meglio. Perché il trucco dell’invecchiamento non funziona mai e spinge il tutto ai limiti del ridicolo.
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Due o tre volte stavo per sbottare, ma per rispetto mi sono trattenuto, perché il film ha pure dei pregi. Ma non aiutano una serie di battute da romanzo italiano di successo che mi sono segnato, “C’è sempre qualcosa che ti pietrifica”. Favino, con un personaggio complesso e impossibile da portare in scena fa quello che può, ma esagera col trucco, glielo dovrebbero vietare per i prossimi due-tre anni.
Nanni Moretti funziona meglio qui che in “Tre piani”, tanto che speravo che il suo personaggio e il peso che porta sulla scena potessero morettizzare positivamente un po’ tutto, ma il suo psicanalista si perde in situazioni inutili, scompare nella scenografia o prova discorsi sulla vita che non sempre vanno a segno. Ma quello è Nanni Moretti, non lo potete buttar via così!
il colibri 2
Le ragazze, malgrado il film sia diretto da una donna e scritto da due donne, sembrano frutto di un copione un po’ machista, che non tiene conto della lezione di Jane Campion. Cercando di salvare il film, mi aggrappo un po’ alla Porcaroli, sempre così attenta e precisa, all’eleganza di Berenice Bejo, a Laura Morante che non ha bisogno di fingersi toscana, agli omaggi alla Fiorentina, alla presenza di Cecche. Ma come il colibrì che fa tanta fatica per stare fermo invece di volare, anche il film rimane così. In aria. A far rumore senza volare.
Stamane ho visto anche, e l’ho trovato commovente, “A Cooler Climate”, firmato dall’ormai novantaquattrenne James Ivory e dal montatore Giles Gardner. Il vecchio Ivory tira fuori da un vecchio cassone le pizze che documentano il suo primo viaggio in Afghanistan nel 1960 per un film che non porterà mai a termine. Un film che avrebbe voluto fare lì, a Kabul e dintorni, per un motivo neanche molto elegante, perché il clima era mite, mai oltre 26°.
A Cooler Climate
Mentre vediamo queste immagini incredibili di un mondo ormai perduto, la Kabul del 1960, prima dell’avvento dei mujaheddin, dei russi, degli americani, la grande statua del Budda ancora intatta, in un Afghanistan che si stava lentamente aprendo alla modernità, Ivory stesso legge le lettere che scriveva da lì alla madre sul mondo che stava filmando. Non solo. Inserisce nel racconto l’autobiografia incredibile di Babur, principe viaggiando che partirà nel 500 dal Kurdistan e arriverà in India costruendo un impero.
il colibri 2
Al tempo stesso racconta la sua vita in una piccola cittadina dell’Oregon, le pulsioni sessuali represse, l’interesse per il cinema e per i compagni di scuola. I ricordi, le immagini dell’Afghanistan, l’autobiografia di Babur, che si dichiara più interessato ai giovani maschi che non alle ragazze, confluiscono in un racconto più ampio che porterà Ivory, dopo il viaggio a Kabul, a incontrare i suoi due più celebri collaboratori, Ismail Merchant e la sceneggiatrice Ruth Prawer Jhabvala e a capire davvero chi è. Su tutto dominano la bellezza delle immagini ritrovate dell’Afghanistan del 1960, ma è bellissimo anche l’intreccio delle storie che Ivory stesso racconta. Trovando un filo solo apparentemente nascosto che possa unire assieme.
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