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    SE DOVETE ROMPE ER CAZZO PURE PER COME STAMPANO I LIBRI, STAMPATELI DA SOLI - LA SCRITTRICE INGLESE NATASHA BROWN ACCUSA DI RAZZISMO IL MARCHIO ASTORIA, DELLA CASA EDITRICE "GEMS", CHE HA TRADOTTO IL SUO "ANATOMIA DI UN FINE SETTIMANA" IN ITALIANO - L'AUTRICE HA CHIESTO IL CAMBIO DELLA BIOGRAFIA IN COPERTINA, DOVE VIENE DEFINITA "INGLESE DI SECONDA GENERAZIONE", ORA CONTESTA ANCHE ALCUNE PARTI DELLA TRADUZIONE E CHIEDE IL RITIRO DEL LIBRO...


     
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    Caterina Soffici per “la Stampa"

     

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    L'autrice inglese Natasha Brown contro Astoria, il marchio del gruppo Gems che l'ha tradotta in Italia. Ha chiesto prima il cambio di copertina, poi una pecetta su una frase nella biografia, ora contesta addirittura la traduzione e chiede il ritiro del libro. Natasha Brown ha debuttato l'anno scorso con Anatomia di un fine settimana (per Astoria nella bella traduzione di Valentina Ricci), e si è fatta subito notare. «Sorprendente» per Bernardine Evaristo, «un appello non urlato alla rivoluzione» per Ali Smith, inserito nella short list del Rathbones Folio Prize e del Goldsmith Prize, premi letterari di alta qualità.

     

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    Il libro è uno dei romanzi più intensi e interessanti letti di recente, un meraviglioso ritratto al vetriolo del sistema di classe britannico, del suo rapporto irrisolto con il colonialismo, quindi con la razza, l'immigrazione, l'identità e anche con il sessismo. Non sorprende la scelta di Astoria, sempre attenta a voci nuove e particolari del panorama internazionale, di aggiudicarsi la pubblicazione.

     

    La protagonista senza nome e voce narrante del romanzo è una giovane donna britannica di colore che ha studiato nelle migliori scuole del regno, lavora nella City ed è lanciata in una carriera di prestigio nel mondo della finanza.

     

    Stipendi da capogiro, vita agiata, appartamento in una zona cool di Londra, piano sanitario privato. Ha un fidanzato bianco, rampollo di una famiglia aristocratica con villa in campagna, dove la protagonista è invitata a passare il fine settimana e finisce sotto la lente di ingrandimento degli inglesissimi parenti snob di lui.

     

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    Con una scrittura tagliente e precisa, Natasha Brown fa emergere tutto il disagio e il senso di straniamento della protagonista, che sulla carta ha tutto, ma la sua condizione di donna e nera la rende una persona irrisolta, le manca qualcosa al punto tale che farà una scelta imprevista (e assurda) pur di potersi definire una donna libera.

     

    Si dà il caso che anche Natasha Brown sia una giovane donna britannica di colore, laureata a Cambridge in matematica e abbia lavorato per dieci anni in finanza nella City prima di prendersi un anno sabbatico per scrivere il romanzo.

     

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    L'ho intervistata a metà aprile e quello che leggerete è quanto ci siamo dette. Nel frattempo sono successe altre cose. Tramite la sua agenzia londinese l'autrice ha contestato alla casa editrice italiana la biografia in copertina, dove viene definita «inglese di seconda generazione».

     

    Sembra un dettaglio minimo, ma non lo è nel clima incandescente del post #Black Lives Matters, di una Cancel Culture che sta diventando dittatura del politicamente corretto e di una sensibilità «woke» che deborda nella censura: ogni riferimento a questioni che evocano l'origine etnica di una persona è terreno minato. In sostanza la Brown accusa Astoria di razzismo.

     

    Allo stupore dell'editore italiano (aveva già ottenuto l'ok alla copertina e su richiesta dell'agente aveva sostituito l'immagine di una donna dai capelli neri con quella di una sedia) che si è offerto di mettere una pecetta, coprendo le parole incriminate con il libro già in distribuzione, la situazione è peggiorata. Adesso la Brown contesta anche alcune parti della traduzione e chiede il ritiro del libro.

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    Viene da chiedersi se sarebbe stato lo stesso con una donna bianca protagonista. E la risposta è chiaramente no, perché il tema è proprio il disagio di una donna nera, seppure ricca e di successo, nel panorama della società classista e sotterraneamente razzista dell'ex impero britannico. Così è stato recepito anche dai giornali inglesi e americani che ne hanno parlato in maniera entusiastica.

     

    Ma Natasha Brown rifiuta questa catalogazione. Se le chiedi come descriverebbe allora il suo romanzo, risponde: «E' un libro che si interroga sulla narrativa e sul linguaggio. Ogni altra lettura è impropria e dannosa».

     

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    Non è autobiografico o autofiction, ma quanto ha messo della sua esperienza in questo libro?

    «Intenzionalmente non ho messo niente di me. E non voglio parlare di me. Non credo che sia importante, ma il fatto che è in traduzione in molte lingue e in diverse culture significa che non parla di una persona in particolare».

     

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    Forse non lei come scrittrice, ma i suoi personaggi hanno opinioni chiare al riguardo. La voce narrante, soprattutto, è fortemente critica sulla società britannica, si interroga su cosa significa essere inglesi oggi.

    «Penso che il libro sembri così politico perché il mio aspetto è politicizzato, ma è molto meno politico e impegnato rispetto a tanti altri libri contemporanei riguardo a questi argomenti. Ma il fatto che da quando il romanzo è uscito molta gente continua a porre l'accento su questi temi mi fa interrogare sul fatto se sia accettabile politicizzare un libro solo per l'aspetto del suo autore. E questo non mi fa sentire a mio agio».

     

    Ma questo è quello che accade coi libri. I lettori accedono a un'altra dimensione, una dimensione dove l'autore l'ha portato magari inconsciamente. Per me è un complimento.

    «Non è questo che voglio dire. Io dico, se prendi le parole di questo romanzo e le confronti con le parole di altri libri pubblicati nello stesso periodo, questo libro è abbastanza chiaramente non politico. Il lato inconscio non lo trovi nelle pagine».

     

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     Quindi secondo lei qual è il cuore del libro?

    «Non è il compito di un autore dire alla gente come prendere il proprio libro, ma per me è centrale la questione se il linguaggio possa essere neutro e se il linguaggio possa essere usato per alterare la percezione della realtà. Poi ovviamente c'è una storia, perché ci deve essere una storia per funzionare come romanzo, ma quello che mi interessava era piuttosto come scrivere una storia che fosse una rappresentazione della realtà».

     

    Come è arrivata alla scrittura dopo la matematica e la finanza?

    «Mi ha sempre interessato il linguaggio. Ho letto tanto su semiotica, strutturalismo, post-strutturalismo, linguistica. Mi interessava capire come si usano le parole, come funziona il linguaggio. Volevo scrivere di queste cose e il romanzo alla fine è stato un modo per capire piuttosto il modo in cui si raccontano le storie e come renderle reali».

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    Sta scrivendo un altro libro?

    «Mi sono presa un po' di tempo per scrivere ancora, un paio di anni di pausa dal mio vecchio lavoro, ma credo che poi tornerò alla vita vera. Sto scribacchiando, ma non mi vedo in una carriera di scrittrice».

     

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     Ah! La vita vera! Non crede che fare la scrittrice possa essere un lavoro a tempo pieno?

    «Assolutamente sì, un sacco di gente fa dello scrivere delle ottime carriere, ma io non voglio essere motivata da preoccupazioni commerciali quando scrivo e non voglio dover fare concessioni. Oggi sono grata di poter scrivere quello che mi interessa e sono molto contenta di poterlo fare senza dover fare compromessi».

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