Estratto dell’articolo di Elisabetta Rosaspina per il “Corriere della Sera”
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Del giorno in cui compì vent’anni, Goti Bauer non ha alcun ricordo. E non perché ne siano trascorsi altri 80 e, dunque, oggi ne compia cento. Anzi. La sua mente custodisce fieramente un’infinità di dettagli sul suo secolo di vita tribolata.
Goti Bauer, quindi, sa bene che il 29 luglio 1944 era nella sezione femminile del campo di sterminio di Auschwitz – Birkenau. Due mesi prima era stata arrestata con i genitori e il fratello al confine italo-svizzero, dopo la «soffiata» di chi, pagato per portarli in salvo, voleva guadagnarsi anche la ricompensa promessa a chi denunciava gli ebrei in fuga dai rastrellamenti.
Il suo ventesimo compleanno non poteva essere che «un giorno uguale a tutti gli altri». E molte volte, ormai, ha già raccontato come consumava nel lager quei giorni di invariabile fame e sofferenza, impregnati dell’odore acre della carne umana che bruciava nei forni crematori, senza conoscere la sorte dei famigliari dai quali era stata subito separata. […]
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Fa uno sforzo di immaginazione, più che di memoria: «Le mie compagne mi avranno fatto gli auguri. Ci volevamo tutte molto bene. Si erano create amicizie, ci raccontavamo le storie di famiglia. Io parlavo tedesco e ungherese, così potevo comunicare con tutti, fare da interprete, tradurre gli ordini dei vigilanti alle deportate ungheresi che non li capivano, evitando che fossero punite per non aver obbedito. Ma l’unico giorno diverso dagli altri era quello in cui ti svegliavi dopo aver sognato la liberazione».
Capitava spesso? «Quasi mai». Eppure, da bambina, Goti, diminutivo di Agata — Agata Herskovits —, era convinta che il suo anniversario fosse festa nazionale: «Il 29 luglio era anche il compleanno di Mussolini — sorride della coincidenza —, tutta la città era imbandierata e io credevo che quelle celebrazioni fossero per me».
La città era Fiume, all’epoca ancora italiana.
«Sì. Sono nata a Berehova, in Cecoslovacchia, ora in Ucraina, ma sono cresciuta a Fiume. Il suo nome è diventato Rijeka, che in croato significa sempre fiume. Continuo ad amarla come allora, anche se ha perso la sua atmosfera mitteleuropea. Ed è lì, nella nostra casa di via Goldoni 1, che sono tornata dopo la mia liberazione».
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Da Auschwitz era stata trasferita al campo di Terezín, Theresienstadt per i tedeschi: che cosa accadde all’arrivo della Croce Rossa e poi dei sovietici, il 9 maggio 1945? Come riuscì a raggiungere Fiume, distante quasi mille chilometri?
«Sono uscita dal campo a piedi. Ho camminato fino a una stazione ferroviaria, ma i treni cambiavano direzione ogni due fermate e bisognava scendere. Avevo paura di essere fermata e uccisa lungo il percorso verso Vienna. È stato un viaggio a tappe, lungo due mesi: sono arrivata in luglio».
La sua famiglia?
«Non c’era più nessuno. A Fiume mi accolse una vicina di casa, la signora Braida, che mi voleva molto bene, forse perché aveva perso una figlia della mia età. Mi preparò un bel letto, ma io mi buttai a dormire per terra. Non ero più abituata al letto».
Poi?
«Decisi di andare a Milano a cercare notizie di mio fratello Tiberio, ma nessuno sapeva niente. Ho scoperto molti anni dopo, dal libro della storica Liliana Picciotta, che era morto nel campo di Buchenwald poco prima della fine della guerra. Mi stavo preparando a partire per gli Stati Uniti, quando un pomeriggio, a casa di amici, ho conosciuto un ufficiale degli Alpini di stanza in Eritrea...». […]
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Quando ha cominciato a raccontare ciò che aveva visto e passato?
«Subito. Appena sono rientrata, e insistevo perché altri sopravvissuti testimoniassero — risponde Goti Bauer —. Ma molti avevano scelto il silenzio. E poi non tutti avevano voglia di ascoltare storie così tristi. I più curiosi erano i giovani. Mentre gli adulti forse si vergognavano di non aver voluto o potuto fare niente per noi».
Sapevano dove eravate stati deportati?
«Qualcuno sì, altri pensavano che fossimo spariti perché ci eravamo nascosti. Io volevo che tutti sapessero la verità. Adesso sono passati tanti anni, sono usciti migliaia di libri, articoli, film. Chi vuole può documentarsi, ma io continuo a rispondere a tutti perché, se si dimenticasse, qualcosa del genere potrebbe succedere di nuovo».
Si è mai chiesta che cosa, invece, abbiano potuto rispondere i vostri carnefici alle domande dei loro figli?
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«Penso che non abbiano raccontato mai nulla. Anche chi aveva poca coscienza, alla fine deve aver provato un po’ di rimorso. Rimorso e vergogna, sono parole importanti. La mia grande fortuna è stata di poter tornare e raccontare. Tantissimi altri non l’hanno avuta».
Questi cento anni, però, oggi vanno festeggiati.
«Perché? Davvero sono così importanti? Verrà ancora qualcuno a farmi domande? Non so se riuscirò a rispondere a tutte. Ma proverò».