Antonio Dipollina per “la Repubblica”
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"Eravamo rumorosi, eravamo grezzi, eravamo strani. E se qualcuno del pubblico ci avesse dato problemi gli avremmo detto di andare a farsi fottere". Ed è anche una versione edulcorata per la frase che chiude questo incredibile Zappa , film-doc per il quale non è ozioso per una volta spendere il termine: definitivo.
Chi si è avventurato al cinema nei tre giorni di novembre di uscita nelle sale, lo ha fatto per dedizione suprema al mito zappiano: ma mercoledì 16 c'è l'approdo in tv, su Sky Arte, e qui si farà una sorta di appello. A chi c'era in quegli anni e, in quantità modica oppure eccessiva, si era fatto travolgere da quella suggestione suprema: per uno che non somigliava a nessun altro, che faceva quello che voleva.
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Nemmeno in questo film, per quanto completo, si scopre la verità su una delle leggende più belle della storia della musica: Bob Dylan che si fa ammaliare dall'estro musicale di Zappa, lo va a trovare per proporgli una collaborazione, Zappa lo ascolta a lungo e alla fine: «Bob, mi hai convinto. Però facciamo così: le musiche falle pure tu, io mi occupo dei testi».
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Troppo bella per essere vera, o chissà, il resto è invece tutto - quasi - in queste due ore inestimabili. Che si aprono con uno dei momenti più assurdi e incredibili e vagamente senza tempo, ovvero attuali: uno degli ultimi concerti, a Praga, a festeggiare la Rivoluzione di Velluto e la ritirata dei Russi, nel 1989. Finito da quelle parti per motivi imprecisati, ormai boicottato in patria per oscenità dei testi (con tanto di processo e lui in giacca e cravatta che si difende e contrattacca) e anche l'annuncio di voler puntare alla Casa Bianca contro l'intollerabile epoca di Reagan e dei Bush.
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Ma soprattutto c'è un regista (l'inglese Alex Winter, autore tra l'altro di The Panama Papers ) che ha avuto accesso completo all'archivio zappiano. Nella casa bunker con annesso studio discografico, una tonnellata di video e nastri, di un genio musicale che coltivava moltissimo il racconto della propria vicenda, mentre tutti pensavano il contrario.
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Di scorrettezza suprema - da annichilire i fautori dello scorrettismo cialtrone in voga oggi - un uomo che era sintesi suprema in sé, che disdegnava Beethoven, come racconta, perché Edgar Varèse era troppo di più e non capiva perché la gente non lo capisse. E che un giorno diventa rockstar, in un mare di progetti che, non appena sfioravano il successo vero, producevano in lui la marcia indietro («Ha sabotato da sé molti pezzi che potevano avere grande successo » dice Alice Cooper).
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Nelle apparizioni pubbliche, la delizia di tutto quel materiale vintage, lui e David Letterman, lui e John Belushi al Saturday Night Live . Oppure l'avvicinamento a John Lennon finché John e Yoko non salgono sul palco di un suo concerto per il bis. Ultima parte con la malattia, che se lo porta via a soli 52 anni: e anche qui tutto documentato, filmato, una malinconia feroce nello sguardo, da non credere.
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