Cesare Martinetti per “la Stampa”
Boris Romanchenko
Boris Romanchenko aveva 96 anni e scolpiti nella biografia gli orrori di un secolo: dalla deportazione nazista alla guerra di Vladimir Putin. Vittima simbolica di un tragico paradosso: sopravvissuto ai campi di Hitler, Boris è stato ucciso dalla guerra decisa dal Cremlino per "denazificare" l'Ucraina. La sua storia rappresenta così il compimento di un secolo che pensava di aver chiuso quei conti all'alba del 2000. Boris ha vissuto con dedizione il dovere del testimone.
Vice presidente del comitato internazionale Buchenwald-Dora, nel 2012, in occasione dell'anniversario della liberazione, era venuto per l'ultima volta nel campo che lo aveva visto prigioniero, giovanissimo. Nelle foto di quel giorno lo vediamo nella casacca a righe bianca e azzurro-cenere davanti alla griglia di ingresso con la scritta "Jedem Das Seine" (a ciascuno il suo); e poi alla commemorazione, dove pronuncia il giuramento di Buchenwald: "Il nostro ideale è creare un nuovo mondo dove regni la pace e la libertà".
Boris Romanchenko
La notizia della sua morte l'ha data la nipote. Boris viveva solo e da alcuni anni non era in grado di muoversi dal suo appartamento all'ottavo piano di un palazzo di Kharkiv. Per anni aveva fatto il volontario nell'associazione intestata a padre Massimiliano Kolbe (ucciso ad Auschwitz) per il sostegno materiale e psicologico degli ex deportati. Nessuno saprà mai con quali sentimenti ha sentito la guerra che si avvicinava nuovamente alla sua vita, come tanti anni fa.
Boris Romanchenko
Da quelle parti non c'è famiglia senza una viva memoria della tragedia. Secondo la Fondazione dei Memoriali di Buchenwald e Dora-Mittelbau, in Ucraina vivono tuttora 42 mila persone sopravvissute ai campi. I deportati sono stati milioni. Masha Gessen, giornalista americana di origini russe, in un recente libro sulla storia della repubblica sovietica del Birobidzhan ("Dove gli ebrei non ci sono", edito dalla Giuntina), ha rievocato così l'occupazione di Kiev da parte dei nazisti: «Molti degli abitanti non ebrei della città e, chissà, forse anche alcuni ebrei, accolsero di buon grado i tedeschi, che avevano inondato Kiev di volantini prima del loro arrivo, promettendo la fine del regime sovietico e una vita di ordine e di abbondanza.
Boris Romanchenko
In cinque giorni, Khreschatyk, il maestoso viale centrale della capitale, andò in fiamme in seguito a una serie di esplosioni di mine, apparentemente piazzate dai sovietici prima di abbandonare la città senza combattere; molte di queste uccisero dei civili. Entro altre due settimane le truppe naziste condussero a piedi tra i trenta e i settantamila ebrei, in gruppi successivi, fino a un burrone alla periferia della città, ordinarono loro di spogliarsi completamente, aprirono il fuoco delle mitragliatrici e poi, in fretta, ricoprirono il burrone, mentre alcune delle vittime erano ancora vive.
Boris Romanchenko
Questo metodo di massacro sarebbe stato riprodotto in tutta l'Ucraina e nei paesi baltici". Ma la catena degli orrori in Ucraina affonda nel profondo della storia e la folle guerra di Vladimir Putin rappresenta la continuità in una sequenza quasi ininterrotta. Sulla casacca da ex internato, Boris Romanchenko portava la stella rossa da deportato politico, non quella gialla degli ebrei. Era stato fatto prigioniero nel 1942 a Sumy, non lontano da Kharkiv. Dopo aver tentato di scappare, venne messo al lavoro forzato nella base di Peenemuende dove si montavano i missili V2 destinati all'Inghilterra. Fu poi recluso a Bergen-Belsen e Buchenwald. Dopo la fine della guerra si è arruolato nell'Armata Rossa ed ha servito per alcuni anni nella Germania Est.