Estroatto dell'articolo di Stefano Lorenzetto per il “Corriere della Sera”
IO ERO IL MILANESE
Non è da tutti finire in galera a 10 giorni dalla nascita. A Lorenzo S. capitò questa sventura nell’ottobre 1976. Fra le braccia della madre A., varcò il cancello del carcere milanese di San Vittore, dov’era recluso D., che aveva messo incinta la donna poco prima di finire arrestato per due rapine in banca. […]
Ora, che altro poteva fare, quel frugoletto, se non seguire le orme del genitore? Lorenzo aveva appena 12 anni quando compì la sua prima rapina; ne aveva 14 quando cominciò a rubare le Fiat 500 usando le chiavette apriscatole della carne Simmenthal; ne aveva 15 quando finì al Beccaria, istituto penale per minorenni.
IO ERO IL MILANESE
Uscitone dopo un anno e 10 mesi, era pronto per una carriera criminale che lo fece diventare il Milanese e al cui confronto quella paterna sbiadisce: un numero imprecisato di rapine, 5 arresti, almeno 25 processi e altrettante condanne […] per un totale di 57 anni e 6 mesi di reclusione, che in Italia non si possono neppure scontare per intero, giacché la pena massima, se non scatta l’ergastolo ostativo, si ferma a 30 anni.
Lorenzo S. oggi è un uomo libero. […]. Al Due Palazzi di Padova ha trovato la sua redenzione, quella che ne ha fatto un mediatore penale e sociale esperto in giustizia riparativa, narrata nel libro Io ero il Milanese (Mondadori), appena uscito, […] Lo ha scritto con Mauro Pescio, autore e attore che ne aveva tratto un podcast di successo in 14 puntate per Rai Play Sound.
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Dov’è nato?
«Al Giambellino, a Milano. Vedevo mio padre a San Vittore un’ora a settimana, quattro volte al mese. Mi aveva fatto credere che era elettricista là dentro».
Chi le disse la verità?
«Pino, suo fratello. Aveva avuto anche lui guai con la giustizia. Piansi fino a sera. Mi sentivo tradito. Mia madre faceva le pulizie, lo zio ci aiutava economicamente. Mi mise nel Convitto nazionale Longone. I compagni di classe m’indicavano la prigione dalle finestre e ridevano: “Ecco dov’è rinchiuso tuo papà”».
rapinatori
Ma poi suo padre uscì.
«Non è che ne gioii. In casa spadroneggiava, ficcava il naso in camera mia, mi vietava di giocare per strada. Ci portò a vivere nella sua città natale, Catania, dove al rione Librino scoprii di avere tre fratelli nati dalla relazione con un’altra donna. Il primo aveva 7 anni più di me. Legai con Giovanni, quasi mio coetaneo. Fu lui a ribattezzarmi il Milanese. Nei quartieri malfamati, da San Cristoforo a San Berillo, ho tuttora quel nomignolo».
RAPINATORI
Giovanni la avviò al crimine.
«Rapinammo 80.000 lire a un fruttivendolo. Ma prima rubammo un go-kart: avevamo sentito che serve un’auto per la fuga... Quella stessa sera, il negoziante si presentò a casa nostra. Mio padre gli restituì i soldi e mi massacrò di botte. Mi ritrovai a testa in giù, tenuto per i piedi».
[…] Ma non aveva paura?
«Non del carcere. Eravamo protetti dal casco, niente pistole. Lei deve capire che il 99,9 per cento del successo di un colpo sta nell’intenzione. Mi è capitato di compiere rapine armato solo di una penna».
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La scuola non la frequentava?
«Finsi di andarci fino ai 14 anni. In terza media fui bocciato. Se oggi ho un diploma di ragioniere, lo devo alla prigione. Vorrei laurearmi in giurisprudenza».
Quindi rapinava anziché studiare.
«Esatto. Quattro diciottenni catanesi mi proposero un colpo a Milano: “Ti diamo 1 milione se fai l’apertura”. In gergo, è il momento in cui un incensurato a volto scoperto grida: “Questa è una rapina”. Salimmo al Nord in auto. Assaltammo un’agenzia Cariplo al Lorenteggio. La targa era probabilmente segnalata perché fummo subito beccati. Io finii al Beccaria e gli altri, che si erano appena spartiti un’ottantina di milioni, a San Vittore».
[…] Che armi usava nei colpi in banca?
«Revolver. Smith & Wesson 38 special e 357 Magnum, comprate per 100.000 lire in una sala giochi di Catania. Mi allenavo al tiro sui terrazzi dei falansteri del Librino, progettati da Kenzo Tange».
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Era pronto a uccidere?
«Non volevo farmi arrestare».
Quindi sì o no?
«Forse no, sa? Ero pronto a morire».
Come spendeva i soldi delle rapine?
«Puttane. Night. Champagne Dom Pérignon e Cristal Roederer. Una Bmw 530. Moto Kawasaki Ninja e Honda Hornet. Mi chiamavano “il bandito che veste Armani”. Negli assalti indossavo completi neri dello stilista, di lino in estate».
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Investire i soldi e rifarsi una vita, no?
«Ero dipendente dal denaro. Uscivo di casa con 1.000 euro. Se me ne restavano in tasca solo 500, dovevo tornare indietro a prenderne altri 500. E poi c’era l’adrenalina del rischio, quella che mi ha tenuto lontano da eroina e cocaina».
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S’ispirava a qualche malavitoso?
«A Renato Vallanzasca. La mafia avrebbe voluto affiliarmi. Non ci riuscì. […]».
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Quanti anni ha passato in prigione?
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«Venti. L’avvocato d’ufficio, Maurizio De Nardo di Torino, mi fece ottenere la continuazione dei reati. Fu ricalcolata la pena a partire dal primo arresto: risultò che l’avevo già ampiamente scontata. Il 19 luglio 2017 fui scarcerato».
Ora si occupa di giustizia riparativa.
«[…] Faccio incontrare i carnefici con chi ha patito i reati da loro commessi, per esempio con Agnese Moro, con Manlio Milani, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di piazza della Loggia, con Giorgio Bazzega, figlio del maresciallo Sergio Bazzega, ucciso dal brigatista Walter Alasia».
È stipendiato?
«Sì, dal Comune: 1.000 euro al mese».
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In carcere ha imparato qualcosa?
«A rapinare meglio».
Vorrebbe abolire i penitenziari? E con che cosa li sostituirebbe?
«Non li sostituirei. Vorrei solo che si evitasse di segregarvi i tossicodipendenti, i malati psichici, le persone con disagi, i delinquenti non abituali. La detenzione non fa altro che aumentare il desiderio di riabbracciare il crimine».
Ma lei che garanzie può offrire alla società circa il fatto che non tornerà mai più a delinquere?
«Una sola: il mio lavoro. Collaboro con i tribunali e la magistratura».[…]