Fabrizio Accatino per “La Stampa”
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«Necessario» è un termine piuttosto abusato quando si parla di cinema, per definizione meravigliosa arte del superfluo. Però sì, per «C'è un soffio di vita soltanto» di Matteo Botrugno e Davide Coluccini il termine calza a pennello.
Perché la storia della 97enne Lucy (all'anagrafe Luciano Salani), la più anziana transessuale d'Italia, ci restituisce le ambiguità irrisolte (sempre le stesse) di due epoche: la sua e la nostra. Il documentario verrà presentato lunedì sera al Torino Film Festival, alla presenza della protagonista e dei registi, due indipendenti che da quindici anni si sudano la produzione di ogni film.
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Per questo lavoro non hanno avuto paura di affrontare un budget prossimo allo zero, pur di portare a casa ciò che volevano. «L'unica cosa che ci importava era raccontare la storia di Lucy, perché non venisse dimenticata», spiegano. «Lei l'abbiamo conosciuta per caso, in una piccola intervista ripubblicata su Facebook, in una di quelle sere in cui scorri annoiato le bacheche social.
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Abbiamo trovato un contatto, le abbiamo telefonato e per spiegarle il progetto l'abbiamo incontrata nella sua casa di Bologna, in cui vive sola. Si è subito lamentata dei politici che approfittano di lei in campagna elettorale, la prendono sotto braccio e la esibiscono come un trofeo, senza mantenere mai le promesse. Probabilmente ha capito che noi non eravamo così e ha deciso di fidarsi». Ci stanno dieci vite nella vita di Lucy.
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Bambina dentro da sempre, abusata da un sacerdote, le prime marchette, la diserzione dall'esercito tedesco, una fuga rocambolesca finita con una gamba lesa da un proiettile, la deportazione a Dachau, la liberazione, l'attività da travestito nel dopoguerra, una figlia adottiva morta prima di lei, il cambio di sesso nella Londra degli anni Ottanta, la discriminazione e infine l'oblio.
«Non sapevo proprio cosa aspettarmi dai registi», racconta lei. «Ho avuto una vita molto lunga e piena di difficoltà, tra avventure, momenti durissimi, piccole e grandi gioie. Ho risposto alle loro domande, ho raccontato quello c'era da raccontare, mi sono fatta seguire dalla loro cinepresa. Giorno dopo giorno si è iniziato a creare un rapporto molto profondo, ho cominciato a credere che forse ne valeva davvero la pena. Soprattutto, Davide e Matteo mi hanno trasmesso un grande entusiasmo, visto che da qualche anno il mio non era proprio alle stelle».
prigionieri di dachau
Tra scioccanti memorie delle atrocità subite e delicati ricordi del passato (come la poesia composta in gioventù, a cui il titolo ruba un verso), il film segue Lucy in una quotidianità fatta di noia alla finestra e civetterie allo specchio, visite di amici e film di fantascienza in dvd.
Restituendo una figura sfaccettata e complessa, che la fantasia di nessun romanziere sarebbe mai stata capace di creare. «In questo film ho raccontato tutto quanto mi è capitato nella vita», spiega ancora lei.
la liberazione di dachau
«Ci sono il campo di concentramento, le lotte per diventare la donna che sentivo di essere, gli amori, gli affetti, le disavventure. Non è stata però soltanto una valvola di sfogo. Dopo le riprese mi rendevo conto che quello avrebbe potuto essere d'aiuto anche per altri. Non voglio sembrare presuntuosa, ma forse la mia storia potrà essere d'esempio, una speranza per chi si trova a lottare per la propria identità e dignità personale».
Nell'estate 2020 Lucy avrebbe dovuto andare a Dachau, invitata per le celebrazioni del 75esimo anniversario della liberazione del campo, poi è scoppiata la pandemia. Il Covid ha fermato tutto, ma non i registi. «Ce l'abbiamo portata comunque, perché ci sembrava giusto che la narrazione si chiudesse lì dove tutto ha avuto inizio. Noi siamo rimasti un passo indietro, a seguirla con la macchina da presa.
ingresso campo di concentramento di dachau
Forse è stato persino meglio che fossimo da soli. Il suo monologo davanti al memoriale delle vittime ci ha tolto il fiato, lì ci siamo resi conto definitivamente del suo straordinario spessore umano, della saggezza che tutte quelle esperienze hanno sviluppato in lei».
Nello struggente finale, Lucy fissa quella grande croce scura sul muro di pietra, eretto dove una volta venivano bruciati i prigionieri, e si sfoga piangendo: «Se ci fosse veramente un Dio, tutte queste cose non sarebbero mai successe. Ma non c'è purtroppo. Il Dio siamo noi, perché è la nostra volontà che comanda il mondo, non Dio. Quale Dio? Per fortuna sono arrivata in fondo, almeno ho potuto constatare che non valeva la pena rimanere su questo pianeta».