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    UNA FEMMINISTA DIECI E LODEN (BARBARA) -  INIZIÒ COME BALLERINA NEI NIGHT, POI L' INCONTRO E IL MATRIMONIO CON ELIA KAZAN, QUINDI LA REGIA DI UN FILM MILITANTE ‘WANDA’ PREMIATO A VENEZIA. UN LIBRO RISCOPRE LA VITA (BREVE) DELLA PIN-UP - LA SUA EROINA WANDA DENUNCIAVA LA SUBALTERNITÀ DELLA DONNA- LA FRASE: "NON FIDATEVI MAI DI UN UOMO, L' UNICA COSA CHE AVETE È IL VOSTRO CORPO, FATELI PAGARE” – VIDEO


     
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    Laura Laurenzi per il Venerdì- la Repubblica

     

    Non sappiamo molto della vita di Barbara Loden.

     

    barbara loden barbara loden

    Chi era costei? Sappiamo che è nata sei anni dopo Marilyn Monroe, che era bionda come lei e come lei faceva la pin-up. Arriva a New York dalla Carolina del Sud - «terra di bifolchi», così lei definisce lo Stato in cui è nata - a soli 17 anni. A New York sbarca il lunario facendo la modella, fa anche la ballerina nei night club e canta al Copacabana, ma quando si iscrive all' Actors Studio la sua vita cambia di colpo.

     

    Cambia il suo status: nel 1969 diventa la moglie di Elia Kazan, il leggendario regista di Fronte del porto, di Un tram che si chiama desiderio, di La valle dell' Eden. Mentre Barbara dirigerà e interpreterà un film, il solo da regista, che diventerà - lentamente, negli anni, quasi suo malgrado - un film di culto, un' opera fondamentale per il movimento femminista. «Uno dei migliori film indipendenti americani mai girati», lo loda oggi Richard Brody, critico cinematografico del New Yorker. Con il suo lungometraggio intitolato semplicemente Wanda, che suscitò l' entusiasmo di Marguerite Duras, Loden vince il premio Pasinetti della critica al Festival di Venezia del 1970. Un piccolo film, piccolo nel senso che piccolo, anzi microscopico, è il budget di un' opera che la vede non solo autrice, ma anche regista e protagonista assoluta.

     

    barbara loden barbara loden

    Wanda è ispirato a una notizia di cronaca, pubblicata peraltro con scarso risalto, che Barbara legge per caso su un quotidiano di provincia: una casalinga, dopo una rapina in banca in cui il suo complice resta ucciso, viene condannata a 20 anni di prigione. Prima di lasciare il tribunale la signora non solo accoglie con grande sollievo la condanna, ma ringrazia il giudice per il verdetto emesso. Perché lo fa? È questo il rovello che tormenta Barbara Loden. Quale dolore esistenziale può avere spinto quella povera donna a desiderare e ad apprezzare una detenzione così lunga? Perché tanta passività, tanta inerzia, tanto rassegnato fatalismo? Tutto ruota attorno al concetto di sottomissione e di alienazione sociale.

     

    Tra autofiction e biografia A mezzo secolo di distanza la scrittrice francese Nathalie Léger strappa Loden all' oblio e si sovrappone a questa storia, la storia raccontata nel film, reinterpretandola in una narrazione che diventa triplice. Il suo libro, appena uscito in italiano per La Nuova Frontiera, si intitola Suite per Barbara Loden e ha tre protagoniste, tre piani narrativi che si fondono, si incrociano, si stratificano. In un gioco di specchi che può diventare ipnotico, è la storia di una donna (la scrittrice Nathalie Léger) che racconta la storia di una donna (Barbara Loden) che racconta la storia di una donna (Wanda Goronski è il suo nome nel film, nella realtà si chiamava Alma Malone).

    Un' opera insolita che mescola autofiction e biografia, un ibrido che si muove fra docu-drama, memoir, saggio di critica cinematografica e romanzo. Lo stile è spoglio, il ritmo è serrato.

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    Pagine che, un' inquadratura dopo l' altra, somigliano ad appunti di regia, con impietosi primi piani. Le lenzuola sono sporche, le luci ingiallite, il cielo sopra la piccola città mineraria in Pennsylvania è tetro. Siamo lontani dal glamour hollywoodiano.

     

    Quella di Wanda è una storia di inadeguatezza femminile che sembra destinata a espandersi e inglobare altre vite, altre esperienze. La protagonista è trasandata, è sciatta: nella prima scena del film, quando il giudice pronuncia il suo divorzio, si presenta in tribunale con i bigodini in testa. È una donna sconfitta, una moglie maltrattata, una madre mediocre che si lascia portare via i figli senza lottare. I bar in cui Wanda si rifugia sono «sul dirupo dell' infelicità, non un' infelicità piena di enfasi, non un' infelicità grandiosa agganciata alla Storia. No, un' infelicità scialba».

     

    A logorare Wanda è la fatica di non essere amata. Nathalie la paragona a una donna ritratta da Hopper, «una donna sola seduta sul letto di una camera d' albergo, china, un libro sulle ginocchia, semplicemente china sul vuoto».

    Ma cosa hanno in comune «quella donnetta della classe operaia bloccata ai margini della società» e la moglie di uno dei più importanti registi americani di cinema e teatro? si chiede l' autrice.

     

    Barbara Loden ha dichiarato di avere molte affinità con la protagonista del suo film che è quasi il suo doppio, il suo avatar, di aver provato anche lei lo stesso dolore, la stessa umiliazione, la stessa mancanza di motivazione.

     

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    come Marilyn Eppure vista dal di fuori la sua si direbbe una vita prodiga di gratificazioni, mentre Wanda resta impressa nel nostro immaginario come un personaggio anestetizzato, disadorno, umiliato da ogni uomo che incontra, una casalinga disperata, priva di voce, passiva, vinta, senza stimoli e senza autostima. Barbara invece, madre di due figli, ha una vita non certo priva di successi; nulla lascia presagire che a 48 anni morirà di cancro. Da giovanissima anche lei come Marilyn, con il nome d' arte Candy Loden, si è fatta immortalare nella posa classica della pin-up in costume da bagno, la chioma bionda rigogliosa, le gambe da sirena.

     

    «Da dove viene quella posa, in quale lontano boudoir del Neanderthal è stata inventata?», si chiede in un sussulto femminista Nathalie Léger.

     

    All' Actors studio di New York Barbara Loden ha preso lezioni di danza, di dizione, di canto. Nel '64 interpreta a teatro il personaggio ispirato a Marilyn Monroe nel dramma di Arthur Miller Dopo la caduta e si aggiudica un Tony Award, in barba di chi la ritiene una raccomandata, perché aveva recitato in due film diretti dal futuro marito, Splendore nell' erba e Fango sulle stelle.

     

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    Nella sua autobiografia Elia Kazan definisce sua moglie «selvaggia, originale, insolente e dileggiatrice, e focosa con gli uomini. Ha una natura molto tenace, sa essere crudele e aggressiva, resistente al male». Non sembra il ritratto di una perdente. Lei ribatte: «Non fidatevi mai di un uomo, L' unica cosa che avete è il vostro corpo, fateli pagare».

    Riabilitazione tardiva Le parole con cui Loden descrive se stessa e il proprio vissuto sono molto diverse da quelle usate da Elia Kazan.

     

    Sembrano studiate per creare una sorta di sorellanza con Wanda: «Non ero niente. Non avevo amici. Nessun talento. Ero un' ombra. A scuola non avevo imparato nulla. Sapevo a malapena contare e non amavo il cinema, mi faceva paura la gente così perfetta, mi faceva sentire ancora più inadeguata.

     

    Ho attraversato la vita come fossi autistica, convinta di non valere nulla. Per anni ho vissuto come una morta vivente». Ripete durante le interviste che non ha niente di grandioso da descrivere: «Nessun vento della Storia, niente tumulti politici, nessun dramma sociale esemplare». Racconta che non piange mai.

     

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    All' uscita del film nel '70 le femministe non solo non plaudono ma restano indifferenti, quasi si schierano contro. Definiscono Wanda «una donna passiva, sottomessa, che sembra godere del proprio asservimento». Vedono in lei «una che non rivendica nulla e nemmeno crea contro-modelli militanti, nessuna presa di coscienza, nessuna nuova mitologia della donna libera. Niente». Tranne poi, con gli anni, correggere il giudizio fino a capovolgerlo e a identificare in Wanda addirittura un' eroina.

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