Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori e Paolo Gianlorenzo per “La Verità”
Liliane Murekatete con la madre, Marie Therese Mukamitsindo
È pronto l’ennesimo capitolo dell’intramontabile saga delle guerre tra famigliari. Dopo i Totti, Henry e Meghan e la famiglia reale, gli Agnelli, è arrivato il momento della guerra dei Soumahoro. O meglio della moglie del deputato del gruppo misto Aboubakar con mamma e fratelli.
Liliane Murekatete sarebbe pronta per uscire dal processo per reati fiscali che vede coinvolta la sua famiglia (ieri è iniziata a Latina l’udienza preliminare per discutere la richiesta di rinvio a giudizio), a prendere le distanze dalla genitrice, Marie Therese Mukamitsindo e da chi l’ha coinvolta, con i suoi presunti impicci, in questa vicenda.
Infatti ad aprile la difesa della donna ha presentato una memoria, in cui veniva contestata la veridicità dei verbali che la indicavano come presente ad assemblee e consigli d’amministrazione della cooperativa Karibu, con richiesta al contempo di acquisizione degli originali per accertare l’esistenza di sue firme e l’effettiva attribuibilità a lei.
Per la signora, però, è stato invocato dagli inquirenti il processo, come per la madre, per due fratelli e altre due persone. I sei sono accusati di operazioni contabili irregolari finalizzate a evadere le tasse. Complessivamente le fatture false utilizzate contestate alla Mukamitsindo supererebbero i 2,3 milioni di euro.
L’avvocato Lorenzo Borré, difensore di Liliane, ha spiegato alla Verità la propria strategia: «Le posizioni sono in un certo senso conflittuali. Ho preannunciato un deposito documentale, ma anche delle istanze istruttorie per fare determinate verifiche che porterebbero a escludere qualsiasi responsabilità della mia cliente».
liliana murekatete
Il legale prosegue: «Quello che viene contestato alla signora è di aver omesso il controllo della dichiarazione dei redditi presentata dalla madre e che avrebbe creato questo danno di 13.400 euro a causa di fatture che vengono definite soggettivamente inesistenti». Infatti la dichiarazione è basata su documentazione fiscale emessa da una società, la Jambo Africa, sempre riconducibile alla famiglia, che non poteva erogare il servizio prestato, ovvero offrire manodopera alla Karibu. Ma per Borré la Muarekatete «non aveva responsabilità amministrative».
La vera nota dolente sarebbe l’assenza in cda e assemblee della moglie di Soumahoro, la quale, invece, dai verbali risultava presente. La figlia sostiene di non sapere ciò che ha fatto la madre in sua assenza, visto che nel periodo sotto esame era a casa incinta: «Mi rendo conto che dopo certe cronache giudiziarie dire che le cose accadevano a propria insaputa può muovere al sorriso. Ma è andata effettivamente così. Noi abbiamo contestato la presenza della mia cliente nei consigli di amministrazione e nelle assemblee che hanno votato i bilanci e l’esistenza delle relative convocazioni. Nel verbale di maggio del 2019 c’è una firma in stampatello con un altro nome al posto di quello della mia cliente. Chi l’ha fatta, H.
S., lo ha anche ammesso».
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In ogni caso la signora in quel momento faceva parte del consiglio di amministrazione… «Formalmente questo risulta, ma noi contestiamo anche i presupposti della sua nomina e dell’accettazione della stessa e questa è la nostra linea difensiva. Quanto alla presenza nell’assemblea di agosto, noi abbiamo prodotto i tabulati che dimostrano che Liliane stava a 200 chilometri di distanza».
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Ieri è svolta l’udienza preliminare che vede coinvolti la suocera, la moglie e due cognati di Soumahoro per reati fiscali. Nonostante non avessero ricevuto la convocazione si sono costituiti parte civile la cooperativa Karibu e il consorzio Aid. In aula c’era il commissario liquidatore di Aid, Jacopo Marzetti, molto ben accolto dal sindacato. Rappresentato, invece, solo dal legale il commissario liquidatore Francesco Cappello di Karibu, nominato dal ministero dello Sviluppo economico su indicazione di Legacoop.
meme su daniela santanche aboubakar soumahoro by osho
L’udienza è stata rinviata al 3 novembre in quanto i difensori degli imputati sono stati appena nominati dopo la revoca dei precedenti. Il processo appena iniziato riguarda solo presunti reati fiscali, bisognerà attendere per capire come si concluderanno le indagini per altre ipotesi di reato portate avanti dalla Procura guidata da Giuseppe De Falco.
Fuori dal Tribunale, ieri, alcune decine di lavoratori iscritti alla Uiltucs, guidati da Gianfranco Cartisano, hanno manifestato con fischietti e striscioni, elencando come in una giaculatoria i denari incassati dalle cooperative commissariate, ovvero oltre 62 milioni di euro, una lista ripresa dal nostro quotidiano.
Fondi pubblici erogati e incassati attraverso i progetti su accoglienza ed immigrazione.
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«Per ora si sono costituiti 16 lavoratori come parti civili, ma c’è ancora tempo per presentare altre richieste. Oggi avremmo voluto vedere con i nostri occhi gli imputati, che non si sono presentati, per gridare loro che stipendi e lavoro sono stati distratti e distrutti». Gli ex dipendenti chiedono il pagamento di numerosi stipendi arretrati per un valore di circa 400.000 euro.
In piazza e in aula ieri, tra gli ex lavoratori della Karibu e di Aid c’era un solo ragazzo africano. Brahim Ait Salem, quarantenne di origini marocchine: si è presentato insieme con gli altri ex colleghi e la moglie per rivendicare le spettanze mai versate. Si tratta di una bella cifra per lui, 25.000 euro di mancati introiti. Quattro figli da mantenere e la moglie italiana Rabaa Beggoun Luminelli (di padre italiano e madre tunisina) quasi nelle stesse condizioni. Infatti anche lei ha lavorato gli ultimi sei mesi con il consorzio Aid.
Era addetta alle cucine utilizzate per il confezionamento dei pasti da somministrare ai ragazzi affidati alle cooperative della Mukamitsindo. «Io ero un tuttofare», ci racconta Brahim, «mi occupavo della logistica, di accompagnare i ragazzi e della sorveglianza degli appartamenti dove dormivano i minori. Sono stato con loro otto anni.
liliana murekatete
Prima del Covid non avevamo mai avuto problemi. Poi sono iniziati i ritardi, qualche anticipo e poi più niente». A dare manforte al marito Rabaa, che aveva con sé il figlio più piccolo e indossava il classico hijab: «Non pagavano. Non pagavano. Ci dicevano che era colpa dello Stato che non pagava loro e quindi loro non potevano pagare noi. Invece non era niente vero». […]
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