Massimiliano Gallo per ilnapolista.it
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A Riad per Napoli-Fiorentina c’erano novemila spettatori. In uno stadio che ne contiene appena 25mila. Non c’era praticamente nessuno, lo stadio era semivuoto. L’immagine degli spalti deserti – seppure ostinatamente le telecamere provavano a inquadrare solo quelle poche file con pubblico – sembra che abbia molto colpito i commentatori di casa nostra. È così proseguito il dibattito sullo snaturamento del calcio, sulla “pericolosa” deriva del football.
Una discussione che ricorda “Finché c’è guerra c’è speranza” il film diretto e interpretato da Alberto Sordi che fa il trafficante d’armi e così riesce a garantire alla propria famiglia un tenore di vita molto alto. Quando un giornalista rivela il suo lavoro, Sordi viene sottoposto a un processo da moglie e figli. Processo che si chiude col protagonista che dice: «Io vado a dormire perché domani mattina devo piazzare settantamila mitragliatrici. Faccio come dite voi. Se volete che torni al mio vecchio lavoro, lasciatemi dormire. Altrimenti svegliatemi alle tre e mezzo». Finisce che lo svegliano un quarto d’ora prima.
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I protagonisti, gli stipendiati del calcio ricordano i familiari di Alberto Sordi. Maurizio Sarri si diverte sempre a giocare al comunista controcorrente facendo finta di non sapere quale sia il sistema che gli consente di guadagnare stipendi impensabili quando era impiegato di banca. Lo stesso Walter Mazzarri che mostra di ignorare i motivi che hanno indotto la Lega Serie A ad allargare la Supercoppa a quattro squadre. Sono di lotta e di governo: di governo quando ritirano la busta paga e di lotta quando criticano il sistema. Non si trova un lavoratore del calcio che dica quel che è noto a tutti. Che per mantenere quegli stipendi bisogna trovare risorse e quindi giocare di più e in luoghi che sborsano soldi per gli eventi. Un concetto da terza elementare.
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Non si può dire perché il calcio si regge su una finzione. È un’industria però col tacito patto di non rompere il muro di ipocrisia e omertà che in parte la sorregge. L’impalcatura culturale dell’attaccamento alla maglia, dell’amore per i tifosi, per determinati luoghi. Gli stessi tifosi che contestano la scelta di giocare in Arabia Saudita, poi alzano la voce se i loro club non si indebitano in sede di mercato. Vogliono i calciatori forti ma anche le partite sotto casa, possibilmente a prezzi bassi. Una bolla infantile che però nessuno fa scoppiare, tranne rare eccezioni.
Tornando ai novemila spettatori per Napoli-Fiorentina, è un dato che non deve scandalizzare. La Serie A è andata in Arabia perché incassa 23 milioni di cui 8 vanno alla vincitrice e 5 alla finalista. Il Napoli quindi ne ha già incassati 5, cioè due volte il costo di Mazzocchi. In Italia nessuno avrebbe sborsato 23 milioni di euro per tre partite tra squadre italiane. Quindi la Lega Serie A stavolta si è mossa bene, ha fatto un affare.
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A meno che – ed è l’unico argomento valido – non si voglia sollevare il problema dei diritti civili in Arabia Saudita. Ma non ricordiamo dal calcio italiano memorabili (ma anche non memorabili) battaglie per i diritti degli omosessuali o per l’uguaglianza delle donne. Sono temi del tutto inesistenti e quando il calcio vi inciampa, mostra sempre un’arretratezza ai limiti del disgustoso.
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Sì nel calcio il pubblico è importante ma lo è sempre meno dal punto di vista degli incassi. Almeno il pubblico degli spalti. Ormai è chiaro che il calcio non si regge sul botteghino. Contano lo share televisivo, gli sponsor che hanno investito nell’evento, in questo caso il Paese che ha ospitato la Supercoppa perché ha sborsati un bel po’ di soldini. Il resto è la solita solfa ipocrita. Quindi alla domanda: dove sta andando il calcio? Secondo noi la risposta è: dove è sempre andato e sempre andrà: alla ricerca di soldi. E la Lega Serie A ne ha trovati abbastanza, benedetti e si spera subito. Sarebbe da premiarli se non si dovesse sempre vergognare pubblicamente del denaro.
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