Alfredo Faieta per "Domani"
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Alla procura di Milano non è riuscita l’impresa che rese famoso Guglielmo Tell. Hanno provato a colpire la mela del segreto bancario svizzero, senza però riuscirci. Dalla Confederazione, infatti, hanno risposto picche alla richiesta di informazioni sul conto milionario acceso presso la banca Ubs di Lugano e intestato al governatore della Lombardia Attilio Fontana, sul quale i pm lombardi indagano da molto tempo con l’accusa di autoriciclaggio e falso in voluntary disclosure, lo scudo fiscale cui aveva aderito Fontana.
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Non ci sono i requisiti per dare assistenza giudiziaria transnazionale, hanno risposto gli svizzeri che quando si tratta di fisco e banche hanno ancora la schiena ben dritta nei confronti di chi i soldi li ha portati da loro, fossero anche amministratori pubblici di alto rango come Fontana.
Gli accordi con l’Unione europea sullo scambio automatico dei dati bancari siglati a metà del decennio scorso hanno migliorato sicuramente la situazione, ma non al punto di far diventare le banche elvetiche una casa di vetro, neppure se c’è di mezzo la giustizia penale che indaga.
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Senza quei dati sarà difficile proseguire con l’inchiesta e non è escluso che i pm titolari del fascicolo si rassegnino a preparare una richiesta di archiviazione, chiudendo così una vicenda giudiziaria che ha tenuto per molti mesi sulla corda il politico leghista a capo della più popolosa e importante regione italiana.
IL MISTERO DEI CONTI ESTERI
Di quei soldi, oltre cinque milioni di euro, si ha traccia iniziale nel 1997, quando la madre di Attilio Fontana, Maria Giovanna Brunella, aveva deciso di aprire un primo rapporto bancario in Svizzera per far arrivare oltre confine i risparmi derivanti dalla sua attività di dentista con uno studio ben avviato a Varese. Sul primo conto del 1997, come rivelato da Domani, Fontana non era solo erede ma aveva anche la delega a operare.
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Alla morte della signora, avvenuta nel 2014, il governatore ha ereditato il gruzzolo e lo ha poi fatto emergere al fisco italiano con la voluntary disclosure dopo averlo dato in cura a Unione fiduciaria, che lo amministra per lui.
I magistrati milanesi hanno sempre pensato che parte di quei soldi non fossero della madre ma proprio di Fontana: almeno 2,5 milioni di euro sui quali si è concentrata l’indagine che ha poi portato alla rogatoria svizzera che non ha avuto nessun effetto tangibile, nonostante si sia attivato per sbloccarla anche il ministero della Giustizia italiano.
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Per ottenere l’assistenza giudiziaria è necessario il mutuo riconoscimento dei reati tra i due paesi, anche in campo fiscale. E per Berna il reato tributario esiste solo in presenza di una frode ben congegnata per sottrarsi al fisco con destrezza.
Secondo i magistrati svizzeri la frode al fisco italiano non è provata dalle indagini, che hanno dato peso a una firma della mamma ritenuta falsa e che sarebbe stata messa al suo posto da qualcuno nel 2005 in Ubs quando il rapporto bancario era stato rinnovato per adeguarsi all’euroritenuta introdotta quell’anno. Insomma, niente frode e niente carte, che avrebbero dovuto sciogliere il dubbio su chi effettivamente abbia alimentato quel conto a partire dal 1997 e poi dal 2005.
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L’avvocato di Fontana, Jacopo Pensa, fa sapere che i documenti che tempo fa ha consegnato alla procura, in cui avrebbe ricostruito la movimentazione del conto fin dagli anni Settanta, sciolgono ogni dubbio sulla provenienza del denaro. La difesa resta in attesa dell’archiviazione.
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Ma come raccontato nel gennaio 2021 da Domani, l’approfondimento sui conti che ruotano intorno ad Attilio Fontana e famiglia è ben più vasta del conto materno scudato per 5,3 milioni di euro.
Grazie anche alle segnalazioni dell’Uif di Banca d’Italia sono finiti sotto la lente i conti svizzeri della moglie Roberta Dini, la quale era anche proprietaria di società immobiliari oggi in liquidazione.
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Non solo: con l’introduzione della voluntary disclosure hanno approfittato per mettere apposto le pendenze tributarie anche i suoceri di Fontana, imprenditori nel campo dell’abbigliamento con la Dama, l’azienda conosciuta per il marchio Paul&Shark da cui è partita tutta l’indagine penale che ha investito l’avvocato e politico leghista.
Dalle carte in mano agli investigatori emerge che sono stati fatti rientrare capitali nascosti in Estonia, Svizzera e a Curaçao, nelle Antille olandesi «in violazione degli obblighi di dichiarazione dei redditi e di monitoraggio fiscale». Milioni di euro legati proprio alle attività dell’azienda di famiglia che avevano preso il largo con discrezione.
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Il perché si sia cercato di far luce sui soldi dei Dini, al di là di eventuali profili penali, è chiaro se si pensa all’origine dell’inchiesta che vede indagato il governatore e che val la pena di riepilogare affinché non si perda il filo di questa contorta vicenda.
DAI CAMICI AL TESORETTO
Alla scoperta di un conto intestato a Fontana con un saldo superiore ai cinque milioni di euro, tra liquidità e investimenti finanziari, i magistrati della procura milanese erano arrivati indagando su una fornitura alla regione di camici protettivi per il Covid prodotti dalla Dama del cognato Andrea Dini.
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La società aveva subito un pesante stop alle vendite con l’arrivo della pandemia, del lockdown e della chiusura dei negozi. E come molte altre aziende del settore che si sono trovate nella stessa condizione ha riconvertito la produzione in dispositivi di protezione, introvabili nella primavera del 2020.
Ne aveva venduti anche ad Aria, la stazione appaltante della regione Lombardia, ma l’affare si era bloccato quando era emerso il conflitto d’interessi dell’operazione. Non dichiarato e ancor più evidente tenendo conto del fatto che il dieci per cento della società è riferibile a Roberta Dini, la moglie del governatore.
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Quest’ultimo aveva cercato di bonificare dal conto Ubs al cognato 250mila euro, mosso dalla volontà di indennizzarlo per quell’affare finito male. Ma Unione fiduciaria, che amministra quel conto, aveva bloccato il trasferimento per mancanza di una valida causale.
L’inchiesta sui camici, che inizialmente aveva preso la strada della turbata libertà di scelta del contraente con l’iscrizione nel registro delle indagini dei vertici di Aria, a partire dall’ex direttore generale Filippo Bongiovanni, aveva abbandonato poi quell’ipotesi per concentrarsi sulla «frode in pubbliche forniture».
attilio fontana con le mascherine pannolino
Interrotta la vendita, infatti, Andrea Dini (indagato) e Fontana avrebbero pensato di procedere a una donazione che però non avrebbe riguardato tutti i camici ma solo parte di quelli inizialmente pattuiti, interrompendo così la fornitura in danno allo stato.
Per questa ipotesi i pm Paolo Filippini e Carlo Scalas hanno chiesto il rinvio a giudizio per i due cognati, per Bongiovanni e altre due persone, e sarà adesso il gup a decidere la loro sorte.