Irene Famà per "la Stampa"
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Un allenamento di calcetto con suo fratello Loris: questa, per Alex Pompa, imputato per l'omicidio del padre violento il 30 aprile 2020 nel torinese, è stata «la prima giornata di normalità». Per comprendere la storia di questo ragazzo, oggi ventenne, bisogna partire da qui. Dalla partita della settimana scorsa: «Mi è sembrato di vivere un sogno». Dal suo «grazie, è stato bello» rivolto ai giudici della Corte d'Assise di Torino che gliel'hanno concesso.
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Assieme al permesso di frequentare l'università - Scienze della comunicazione - due giorni a settimana. Per l'omicidio del padre, Alex è agli arresti domiciliari: non può fermarsi a prendere un caffè con gli amici, per tornare a casa deve seguire un percorso prestabilito. Eppure, spiega, «sono i primi momenti in cui vivo come un ragazzo della mia età». Normalità è la parola che più ripete durante le spontanee dichiarazioni in aula: «Una vita normale, non chiedo altro». Il suo dramma è racchiuso in questa frase rivolta alla Corte.
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Pronunciata in maniera spontanea, quasi a rafforzare i suoi appunti, il racconto della sua vita che ha scritto su sei pagine di foglio protocollo per essere «il più chiaro possibile». Alex ripercorre la brutalità a cui ha assistito nell'infanzia e nell'adolescenza, la rabbia di un padre «possessivo», «violento», che «ci odiava». Gli tremano le mani quando racconta che la sua vita «era un totale controllo. Soprattutto per mia madre, per lei era un vero inferno». Ricorda le urla tra le corsie del supermercato dove «mamma lavorava, perché lei aveva accennato un sorriso a chi l'aveva salutata», ricordava quando «bisognava fare attenzione a tutto ciò che si faceva e si diceva. E nemmeno quello bastava», la sensazione di «costante pericolo».
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Gli tremano le mani quando parla della notte dell'omicidio: «Papà era come indemoniato. Quando l'ho visto dirigersi verso la cucina, ho capito che ci avrebbe ammazzato. Il mio istinto di sopravvivenza ha pensato solo ad anticiparlo». Da quel momento in poi, i ricordi si interrompono. Il volto riacquista serenità quando, accanto al suo avvocato Claudio Strata, racconta la vita di oggi. Gli ottimi voti all'università, le partite di calcio. «Mi sarebbe sempre piaciuto festeggiare il compleanno con Loris, la mia fidanzata, i miei amici. Organizzare una cena fuori. Ma non si poteva, perché avrei lasciato mamma da sola con papà».
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E perché questo non accadesse, i due ragazzi facevano i turni anche per farsi la doccia. «Agli occhi di nostro padre, non eravamo figli, ma ostacoli. E per mamma siamo diventati guardie del corpo». Il 30 aprile 2020 Alex uccide il papà Giuseppe, 52 anni, con 34 coltellate nel loro appartamento di Collegno. Lo stesso in cui, dopo essere stato ospitato prima dal suo migliore amico, poi dai nonni, ora vive con la sua famiglia. Che lo segue a ogni udienza. «Confido nella Giustizia», dice.
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L'accusa è omicidio volontario e lui, quanto è accaduto, non lo nega. Prova a spiegare il contesto in cui è cresciuto, fa riferimento alle migliaia di registrazioni, 225 file per oltre otto ore solo nel 2019, che lui, suo fratello e sua madre hanno consegnato all'avvocato. «Senza quei documenti sarebbe difficile spiegare cosa accadeva». Perché un conto è ascoltare i racconti, un conto è sobbalzare al suono di una voce trasfigurata dalla rabbia che ripete: «Vi ammazzo. Vado in galera, tanto poi esco». Alex, e i periti del pubblico ministero, della difesa e del Tribunale, l'hanno confermato: in quella violenza cercava di fare da mediatore.
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«Si è fatto carico di gestire l'aggressività del padre», arrivando a ricoprire il ruolo di «paladino della propria casa». Si deciderà sull'eccesso o meno di legittima difesa, su una reazione che, dicono i periti, è stata condizionata «da anni e anni di traumi». Questioni giuridiche. Ma Alex il peso di ciò che è accaduto lo porterà sempre addosso. E quando posa sul banco i suoi appunti, alla presidente della Corte si rivolge con la semplicità di un ragazzo: «Desidero solo una vita normale».
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