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Marco Giusti per Dagospia
Quando sui titoli di coda sentiamo il figlio di Nick Cave, Arthur, scomparso un anno fa ancora quindicenne cadendo da un dirupo, cantare una canzone di Marianne Faithfull assieme al fratello, mentre scorre la scritta che il film è dedicato alla sua “amata memoria”, è difficile non piangere.
Questo per dirvi che il film più commovente della Mostra, quello che ha commosso anche i critici più incalliti è questo strepitoso documentario fuori concorso su Nick Cave, One More Time With Feeling, diretto dall’amico Andrew Dominick, il regista di The Assassination of Jesse James e di Killing Them Softly, che dovrebbe essere un film promozionale legato al primo disco inciso dal cantante dopo il terribile fatto, e diventa invece una incredibile, lenta e dolorosa presa di coscienza e accettazione del lutto.
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Che noi, spettatori, assieme al regista e a tutti i tecnici del film e agli amici sul set, dal socio di sempre Warren Ellis ai componenti della banda, i Bad Seeds, alla moglie Susie, viviamo assieme a lui. Dominick si serve per arrivare a questo di uno schermo con un bianco e nero in 3D, firmato dal direttore della fotografia Benoit Dobie, sempre mobile che sembra scavare in profondità all’interno del cantante, sempre così freddo e impenetrabile, fino a smuoverlo e a farlo parlare.
Va detto che le canzoni del disco, “Skeleton Tree”, che uscirà assieme al documentario a fine mese, a parte un paio, non sono bellissime, ma sono perfettamente funzionali a questa specie di immersione totale nel dolore che è il film, che parte dalla documentazione delle incisioni in studio e dai rapporti con Warren Ellis e, soprattutto, con la moglie. Piano piano il regista riesce a far aprire un cantante così riservato e chiuso come Nick Cave, anche se per tutto il film sembra davvero morto assieme al suo ragazzo.
E’ proprio il suo geniale socio Warren Ellis, che con Nick Cave ha musicato anche tutti i film di Dominick, a introdurci nelle prime scene all’argomento tabù che è alla base sia del disco che del documentario. La grazia di Dominick e di questi ormai non più giovani rocker nell’accompagnare la star nel percorso del dolore è una cosa piuttosto rara nel mondo dello spettacolo. Alla fine è lo stesso Nick Cave a farci un discorso di speranza e di ritorno alla vita, “dobbiamo pensare a chi è rimasto”. Sinceri applausi in Sala Grande per il regista, ma Nick Cave, ovviamente, non è venuto.
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Parliamo invece del film francese in concorso visto ieri sera, Une vie, diretto da Stephane Brizé, il regista de La legge del mercato, molto apprezzato a Cannes l’anno scorso. Brizé dice di aver pensato a questa nuova riduzione del primo romanzo di Guy de Maupassant, scritto nel 1883, e ambientato nella Normandia rurale del 1819, addirittura da una ventina d’anni.
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Il ricordo va subito alla vecchia versione girata da Alexandre Astruc nel 1958, Une vie appunto, interpretata da Maria Schell e Christian Marquand, che venne presentato proprio a Venezia nel 1958 e commentata da critici come André Bazin e Georges Sadoul.
Anche Brizé punta tutto sulla sua eroina, la baronessa Jeanne Dandieu, interpretata dalla palpitante Judith Chemla, molto brava, e del suo amore per il marito, il Visconte Julien de Lamare, interpretato da Swann Arlaud, bel ragazzo, ma traditore e puttaniere che le rovinerà la vita. Maupassant, e quindi anche il povero Brizé, seguono le vicende di Jeanne per ben ventisette anni, cioè nella prima metà dell’800 francese, passando da quella che è una ragazza ingenua, piena di vita, pronta a aprirsi al mondo fino a vederla sempre più in disgrazia a causa dei disastri combinati prima dal marito poi dal figlio Paul.
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Vediamo così Jeanne passare dalla dolcezza dei rapporti coi suoi genitori, i magnifici Jean-Pierre Darrousin e Yolande Moreau, alla scoperta dell’infedeltà del marito e della cameriera che è cresciuta assieme a lei. Quando il marito in lacrime le chiederà perdono, Jeanne lo accetterà, convinta anche dal curato.
Ma Julien seguiterà a tradirla, e lei a soffrire. Pur se girato da Brizé non in maniera noiosa e parruccona, sceglie un formato quadrato da 4/3, molto pittorico, inquadra i suoi protagonisti non in maniera ovvia, spesso recitano quasi al buio, costruisce un montaggio che funziona per ellissi anche piuttosto riuscite per racchiudere in due ore tutta la storia, non capiamo il perché Brizé si sia lanciato in questa operazione così retrò.
Ben fatto, sì, ma non così utile, diciamo. Neanche il film di Astruc, qui a Venezia, smosse più di tanto gli animi. Ma ai critici francesi è piaciuto. Per chi mi legge, infine, devo riportare la scomparsa di un caro amico, studioso e produttore internazionale, l’italo-inglese Donald Ranvaud, morto ieri a 62 anni a Montreal in Canada, in una camera d’albergo. Oltre a produrre film come City of Gold, Donald ha lavorato e collaborato a tanti festival, anche a tante Mostre di Venezia negli anni d’oro.
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