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    LA VENEZIA DEI GIUSTI – IL VAMPIRO DI BELLOCCHIO È UN LAVORO PIENO DI INTELLIGENZA E FASCINO, ANCHE SE UN PO’ DISCONTINUO, QUASI UN ESPERIMENTO, PER NON DIRE UN DIVERTIMENTO


     
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    Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio

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    Marco Giusti per Dagospia

     

    Mai sentito un vampiro che canta “Tapum-Tapum-Tapum” o si emoziona con “Torna a Sorrento”? Con Marco Bellocchio e il suo ‘Sangue del mio sangue’, ma in un primo tempo il film si intitolava più propriamente L’ultimo vampiro, si può. Per questo è anche il primo horror e il primo film di vampiri, anche se diretto da Bellocchio, che sia mai stato in concorso a Venezia, dove geni come Mario Bava e Riccardo Freda non sono mai stati invitati.

     

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    Diciamo subito che Roberto Herlitzka come vecchio vampiro di Bobbio, il paese del regista, che gira solo di notte e si cura le carie da un dentista altrettanto vampiresco, il Toni Bertorelli già vampiro dei Manetti in Zora la vampira, è un vero spasso. Sembra il Bela Lugosi di Martin Landau in Ed Wood, ma più depresso e sofisticato.

     

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    E diciamo anche che il film, diviso in due episodi, uno antico e totalmente horror, storia di fratelli gemelli (come Bellocchio), streghe e monache di clausura, e uno moderno, più divertente, quasi un’operetta buffa, è un lavoro pieno di intelligenza e fascino, anche se un po’ discontinuo, quasi un esperimento, per non dire un divertimento.

     

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    Certo, come al solito, Bellocchio torna ancora una volta ai suoi temi più cari, non solo a Bobbio, e lo fa attraverso un genere, anche se con Le visioni del sabba, La condanna, Il diavolo in corpo aveva già affrontato il demoniaco. Eppure il suo primo episodio, con una fotografia quasi da bianco e nero baviana di Daniele Ciprì e con una complessa e coltissima partitura di Carlo Crivelli, è uno dei migliori film horror che si siano fatti in Italia dai tempi d’oro dei nostri maestri, mentre il secondo episodio, quello moderno, è divertente e ha un Herlitzka fenomenale, ma mi sembra più pasticciato e un po’ attaccaticcio.

     

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    E l’esibizione di Filippo Timi come il pazzo del paese, non proprio un Renfield, ma quasi un Jimmy il fenomeno bellocchiesco, non è il massimo. La prima parte, invece, dominata dai legami di sangue, dalla passione, da un orrore tutto di testa, è perfetta. Non solo. Dimostra che si può costruire oggi qualcosa di storico e fantastico senza bisogno di soldi e di effetti speciali. Non credo che Bellocchio abbia granché visto Bava, ma in qualche modo arriva alle stesse conclusioni stilistiche e visive.

     

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    Federico, il figlio del regista, Piergiorgio Bellocchio, cerca di scoprire perché il fratello gemello Fabrizio, morto suicida, abbia perso la testa per una ragazza, Benedetta, addirittura una suora di clausura, interpretata dalla bella Lidiya Liberman, e giaccia quindi in terra sconsacrata, nel “cimitero degli asini”. Un’onta per la famiglia. Cerca aiuto quindi dalla Chiesa, ma l’inquisitore gli risponde che sono in corso proprio le prove per capire se la ragazza, una suora di clausura, che ha sedotto Fabrizio, sia schiava del demonio o no.

     

    Solo se è schiava del demonio, si può far passare la morte del fratello per un atto non voluto, e quindi il suo corpo può essere sepolto in terra consacrata. Federico, avvicinandosi a Benedetta, inizia a provare la stessa passione del fratello, diventa addirittura l’altro, mentre la stessa ragazza gli passa la chiave per aprire la porta della clausura. E intanto giace con le due sorelle vergini che lo ospitano, Alba Rohrwacher e Federica Fracassi.

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    Proprio nel costruire un film dell’orrore italiano e storicizzato, Bellocchio tocca, forse casualmente, grandi temi e modelli baviani, compreso il tema del doppio, della ragazza indemoniata, del piccolo centro, e costruisce nei grandi ambienti della prigione di Bobbio un racconto gotico molto vecchio stile e di grandissimo spessore.

     

    Il vecchio vampiro, il Conte, interpretato da Herlitzka, che vive oggi nella prigione, invece, e si trova costretto a sbugiardare un finto uomo della regione che vuole vendere l’intero edificio a un miliardario russo, Ivan Franek, mi sembra invece non costruire, alla fine, un episodio significativo, né riesce a far davvero coppia con l’episodio precedente. Fortuna che nel finale assisteremo al climax del primo episodio, che farà luce sull’intero racconto.

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    Notevole l’uso del sangue, anche ripreso dalle canzoni d’epoca, come collante del film, sangue da vampiri, certo, ma anche sangue fraterno, visto che ritroviamo nei due racconti figli e parenti stretti del regista, ma anche tanti dei suoi attori, da Bertorelli a Herlitka alla poetessa Patrizia Bettini, la moglie del Conte, e che l’intero film alla fine ruota attorno ai legami di sangue, ben visibili nei volti dei protagonisti. Anche in sala dal 10 settembre.    

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