J’accuse di Roman Polanski
Marco Giusti per Dagospia
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“Spero che il fatto di essere ebreo non influisca sul suo giudizio su di me”, chiede all’inizio del film il capitano Alfred Dreyfus al suo superiore e maestro Georges Picquart. “No, starò attento a separare i sentimenti dai fatti”, risponde Picquart, lasciando così modo a Dreyfus di fargli presente che il suo giudizio è già in qualche modo compromesso.
roman polanski
In modo non tanto diverso ci si pone un po’ tutti noi rispetto a questo J’accuse di Roman Polanski, sceneggiato assieme al Robert Harris di The Ghostwriter e prodotto da Alain Goldman con Luca Barbareschi, Paolo Del Brocco e Roman Abramovich.
j'accuse presentato a venezia
Anche noi stiamo “attenti” rispetto al film proprio perché è di Polanski in un momento particolare della sua vita. Quando cioè i vecchi processi americani per violenza carnale e le polemiche legate al MeToo e alla presenza di questo film a Venezia ne compromettono in ogni modo uno sguardo neutrale. Sia che lo si ritenga un fresco capolavoro o un buon polpettone un filo polveroso girato da un grande maestro a 86 anni, non riusciamo davvero mai a distinguere l’opera dall’autore.
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Anche perché, e mai come in questo caso, l’opera è l’autore. E’ Polanski a farci sapere da subito che lui si sente da tutta la vita massacrato e additato come il capitano Alfred Dreyfus, un ufficiale francese innocente degradato e punito come traditore dalla destra reazionaria e fintopatriottica francese solo perché ebreo.
E per questo finirà rinchiuso per anni in una cella coi ceppi ai piedi in quel dell’Isola del Diavolo, prima che il colonnello Picquart, interpretato qui da un grande Jean Dujardin, e Emile Zola sulla prima pagina di “L’Aurore” salvino il suo corpo e soprattutto il suo onore di militare e di francese.
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Ma c’è di più. Perché, proiettandosi nella storia di Dreyfus, Polanski affronta una serie di situazioni pur di fine ’800 che oggi ci appaiono estremamente attuali. Come se poco o niente fosse cambiato nella vecchia Europa. Il sovranismo, l’odio per l’Internazionale Ebraica della propaganda fascista, il gioco al massacro delle fake news.
Se ci fu un vero e proprio Affare Dreyfus, prototipo di tanti se non tutti i casi giudiziari-politici del 900, seguito da centinaia di articoli sui giornali e con uno strascico che portò alla realizzazione di film celebri, come The Life of Emile Zola di William Dieterle con Paul Muni come Zola e Joseph Schlidkraut come Dreyfus, c’è anche un vero e proprio Affare Polanski, con martirio dello stesso regista, centinaia di articoli e polemiche su polemiche. Ripeto.
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E’ Polanski, nel bene e nel male, con un po’ di grandeur poco polanskiana (lui che è se,pre stato così ironico), a vedere il proprio caso riflesso nella storia di Dreyfus, condannato ingiustamente dalle forze fasciste e razziste francesi a un martirio infinito. Come fu ingiustamente condannato, dall’opinione pubblica mondiale, addirittura a causa demoniaca della tragedia della moglie Sharon Tate.
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Condannato perché non americano, regista di un film come Rosemary’s Baby, perché star della Swinging London piena di eccessi, orge e droga. E così, in questo caso, non è semplice, per lo spettatore cresciuto con i capolavori del regista, ma che dagli anni di John Ford e di Pablo Picasso, sa distinguere tra opera e autore, staccarli. Certo. Come film, questo J’accuse è un perfetto esempio di grande scrittura e messa in scena.
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Fotografia meravigliosa di Pawel Edelman, lo stesso de Il pianista e di tutti gli ultimi film di Polanski. Scenografie ricchissime di Jean Rabonne. Bellissimo cast, con Louis Garrel cone Dreyfus, Mathieu Amalric come grafologo, Emmanuele Seigneur come amante di Picquart, una serie di nomi eccelsi della Comédie. Non è un film moderno, diciamo. E Polanski è più vicino agli anni di Dreyfus che a quelli del Jocker.
E non è per nulla un film alla Polanski, con svelamenti di identità. Anzi. Con questo è una macchina narrativa costruita alla perfezione. Per vecchi signori, ovvio. Ma, ripeto, il problema del nostro sguardo sul film è quasi insormontabile. E anche i grandi applausi, che partono dall’industria cinematografica europea che rivendica la propria indipendenza da Hollywood, ricevuti a tutte le proiezioni tradiscono un po’ questo problema. Chissà se la festa per il film l’hanno fatta all’Isola del Diavolo?
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