Marco Giusti per Dagospia
Sulla mia pelle di Alessio Cremonini.
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La sezione Orizzonti si apre a Venezia con un film che ovviamente farà discutere, Sulla mia pelle, opera prima di Alessio Cremonini, produzione Luigi e Olivia Musini e Andrea Occhipinti per Netflix, seria ricostruzione dei sette giorni del calvario di Stefano Cucchi, interpretato da un Alessandro Borghi commovente, tra botte dei carabinieri, costole rotte, processi sommari, menefreghismo delle guardie carcerarie e una assurda agonia al Sandro Pertini di Roma nel reparto carcerario di Medicina Protetta da dove uscirà morto.
“Brutta storia farsi nemici i carabinieri. Si sa quando cominci, ma non si sa quando finisci”. Con questa logica, lo Stefano Cucchi di Alessandro Borghi decide, malgrado le torture che ha ricevuto da due carabinieri, di starsene zitto per non peggiorare le cose.
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Anche se il regista decide di non farci assistere al pestaggio, forse perché il caso non è totalmente chiuso, anche se tre colpevoli sono stati individuati, è chiaro che la morte di Stefano Cucchi, uno dei più di 170 detenuti morti in carcere nel 2009, è una vergogna tutta italiana, dei carabinieri che ti ammazzano di botte solo perché sei un tossico, delle guardie e dei medici che “si fanno i cazzi loro” e che non fanno neanche vedere un figlio moribondo ai genitori, interpretati qui da un Max Tortora perfetto e da Milvia Marigliano.
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Come sappiamo dalla cronaca, saranno solo la tenacia e la volontà di avere giustizia della sorella Ilaria, qui interpretata da Jasmine Trinca, a far riaprire il processo, che aveva visto in un primo tempo tutti assolti, medici e guardie carcerarie, indicando in un gruppo di carabinieri i responsabili delle torture che avrebbero portato il fratello alla morte. Assieme, evidentemente, ai medici che non riuscirono a curarlo.
Cremonini segue fedelmente il racconto di Stefano Cucchi secondo la ricostruzione dei fatti della sorella Ilaria, tralasciandoci il lungo strascico giudiziario. Si concentra invece su quei sette giorni in maniera molto precisa presentandoci Cucchi come un ragazzo non uscito dalla droga e dallo spaccio, ma che rimane lucido e ironico al di là delle proprie forze, visto che al momento della morte pesava solo 37 chili.
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Pur se messo in scena con una immagine tra Non essere cattivo e Suburra – La serie, con tanto di colonna sonora dei Mokadelic, il film non cerca uno stile di genere, anzi, prova il più possibile a allontanarsi proprio dal genere, mentre Borghi evita accuratamente di rifarsi ai suoi stessi personaggi più noti, che poco hanno a che fare con il suo Stefano Cucchi, personaggio contraddittorio, ma con una sua fermezza eroica.
Tossico e martire del potere delle guardie, questo Cucchi ci ricorda non poco l’Ettore Garofalo di Mamma Roma di Pasolini, cioè il ragazzo che muore, inquadrato come il Cristo morto del Mantegna, si muove anche negli stessi quartieri. Cremonini però tende a farne una storia meno poetica e più da realismo quotidiano, puntando meno a fare il grande cinema e più al sano cinema alla Netflix.
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Non a caso, il film uscirà contemporaneamente sia in sala che su rete, provocando non pochi mal di pancia agli esercenti, che vedono l’operazione troppo azzardata e hanno minacciato di non prenderlo nelle sale. E’ chiaro che il film non ha la forza di Mamma Roma di Pasolini, o l’immediatezza dell’immagine quasi da sudario delle fotografie di Stefano Cucchi morto, ma ci offre una ricostruzione precisa della storia e dà occasione ad Alessandro Borghi di modellare uno Stefano Cucchi umano e di grande complessità.
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