Francesca Bernasconi per www.ilgiornale.it
Il naufragio della baleniera Essex
Una baleniera che naviga nel cuore dell'Oceano Pacifico, un capodoglio che travolge la nave e un gruppo di naufraghi che riesce a sopravvivere facendo ricorso al cannibalismo. Sembrano gli ingredienti perfetti per un romanzo o un film di successo. Ma questi fatti non sono frutto di una finzione narrativa, a dimostrazione che, a volte, la realtà supera la fantasia. E, infatti, è stata proprio la storia della baleniera Essex a ispirare libri come quello di Herman Melville, Moby Dick.
La caccia alle balene
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Fin dai tempi antichi l'uomo ha considerato la balena (e, in generale, i cetacei) un animale da cacciare. Oltre che per la carne, capodogli, balenottere e megattere erano preziose anche per l'olio, ottenuto dal grasso e utilizzato per alimentare le lampade, e l'ambra grigia, con cui si possono realizzare profumi.
Anche i fanoni, lamine presenti nella bocca di alcune specie di balene, potevano essere usati per costruire carretti, aste e per irriggidire alcune parti dei vestiti, come i corsetti femminili o i colletti delle camicie maschili.
La caccia alla balena veniva effettuata con l'utilizzo di grandi vascelli, chiamate baleniere, che si servivano di piccole barche, le lance, in grado di avvicinarsi maggiormente ai cetacei avvistati. Da qui i marinai lanciavano un arpione per colpire e uccidere la balena. Una volta catturato, l'animale veniva portato sulla baleniera, dove veniva lavorato, di modo da separare e conservare il grasso e gli altri prodotti utili all'uomo.
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All'inizio dell'800 la caccia alle balene divenne l'attività principale degli abitanti di Nantucket, un'isola degli Stati Uniti, situata a Sud di Cape Cod, nello Stato del Massachusetts. Partì proprio da lì la baleniera Essex, la cui tragica fine ha ispirato il romanzo Moby Dick.
Costruita ad Amesbury nel 1799, come riporta la National Maritime Digital Library, la Essex prese il mare nell'agosto del 1819, sotto il comando di George Pollard. Dopo aver raggiunto le isole a Ovest dell'Africa e doppiato Capo Horn, la baleniera si spinse al largo dell'Oceano Pacifico. Il carico di bordo, consistente in grasso di balena, era infatti considerato troppo ridotto, soprattutto in relazione all'arrivo dell'inverno. Per questo il capitano e i marinai decisero di continuare a esplorare il mare.
L'attacco del capodoglio
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A metà novembre, stando a quanto raccontò il primo ufficiale Owen Chase, sopravvissuto al disastro, la baleniera avvistò un gruppo di capodogli e il comandante diede ordine di calare le lance, perché inseguissero i cetacei, nella speranza di catturarne alcuni, per poterne ricavare il necessario.
Chase riuscì ad arpionare una balena che, nel tentativo di liberarsi, colpì la sua scialuppa, provocando una falla. Dato il problema causato dall'apertura, da cui entrava acqua, Chase lasciò andare il cetaceo e torno alla Essex, per cercare di riparare la barca.
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Ma qualcosa di più terribile stava per accadere. Era il 20 novembre del 1820. Il grido di un uomo annunciava l'attacco: "Ho visto una balena molto grande avvicinarsi a noi", raccontò poi Thomas Nickerson, un marinaio a bordo della baleniera, sopravvissuto al naufragio, che scrisse un resoconto sulla vicenda.
"Il suono delle loro voci aveva appena raggiunto le mie orecchie - continua il racconto di Nickerson - quando fu seguito da un terribile 'crash'. La balena aveva colpito la nave con la testa, direttamente sotto la catena di prua di babordo". La nave però non affondò. Ma, invece di allontanarsi, "il mostro fece una svolta a circa trecento metri più avanti, poi, voltandosi di scatto, arrivò con la sua massima velocità".
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E ancora una volta attaccò la nave con "un tremendo colpo". Per la Essex, ormai, non c'era più nulla da fare: "Uno degli uomini che era sotto in quel momento arrivò di corsa sul ponte dicendo: 'La nave si sta riempiendo d'acqua'".
La Essex non colò subito a picco, dando modo all'equipaggio, composto da una ventina di uomini, di recuperare materiale e viveri per 30 giorni di navigazione. Poi, il 22 novembre, tre lance lasciarono il relitto, che si stava inabissando, e iniziarono la loro navigazione nel Pacifico, con l'intenzione di raggiungere le cosre del Sud America. Sarà l'inizio di un lungo ed estenuante naufragio, che lascerà dietro di sé decine di morti e metterà gli uomini a dura prova.
Il naufragio
Tempeste, vento e mare mosso caratterizzano i primi giorni del naufragio. Poi i giorni diventarono settimane e mesi e il caldo cocente iniziò a inviare le lance degli uomini sopravvissuti all'affondamento e all'attacco del capodoglio. La sete, raccontò Nickerson era così forte "tanto che alcuni furono costretti a cercare sollievo nella propria urina. Le nostre sofferenze durante quei giorni caldi superano qualsiasi immaginazione".
Il naufragio della baleniera Essex
Poi, il 20 dicembre, alle sette del mattino, uno dei marinai vide qualcosa che infuse speranza agli uomini sulle scialuppe: "C'è terra", gridò all'improvviso. I marinai credettero di essere incappati nell'Isola Ducie, un piccolo atollo, ma si trattava in realtà di Henderson, un'isola disabitata nell'Oceano Pacifico, che offriva poche risorse.
Il naufragio della baleniera Essex di Owen Chase
Per questo, dopo una settimana sull'isola, il capitano e i suoi compagni presero la decisione di rimettersi in viaggio attraverso l'oceano. La mattina del 27 dicembre le barche vennero portate nuovamente in mare. A bordo c'erano tutti i membri dell'equipaggio della Essex, a eccezione di tre uomini, che rimasero sull'isola, probabilmente perché troppo deboli per poter affrontare di nuovo il mare aperto. I tre vennero soccorsi e tratti in salvo dopo mesi, il 9 aprile 1821.
Intanto, gli altri marinai erano in navigazione nell'Oceano Pacifico, con pochissime provviste e il mare non forniva il sostentamento necessario. Così, alcuni uomini iniziarono a morire di stenti e i compagni seppellirono i corpi affidandoli al mare. Fino a che la situazione divenne disperata.
A quel punto, era rimasta un'unica risorsa: mangiare i corpi dei propri compagni morti. I marinai della Essex dovettero ricorrere al cannibalismo. "Oggi un uomo di colore di nome L. Thomas è morto - scrisse Nickerson - e il suo corpo costituì il cibo dei suoi compagni sopravvissuti per diversi giorni".
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Lo stesso scenario si ripetè altre volte fino a che "il capitano con i suoi tre compagni sopravvissuti, dopo una dovuta consultazione, acconsentì a tirare a sorte", per decidere quale marinaio avrebbe dovuto morire, così da permettere agli altri di sopravvivere fino a quando, nel febbraio 1821, vennero salvati dalla nave Dauphin di NantucKet. Altri marinai vennero soccorsi dal mercantile Indian e dal Surrey.
Come precisato dal Nantucket Historical Association, otto marinai della Essex morirono in mare e altri quattro risultarono dispersi. In totale, quindi, dodici uomini non fecero mai ritorno a casa. Tra i superstiti, il capitano Polland tornò al comando di una nave, che naufragò nuovamente, e il primo ufficiale Owen navigò ancora per diverse campagne di caccia alle balene.
Per molti dei sopravvissuti, il rimorso per il cannibalismo fu tale da lasciarli segnati per tutta la vita e gli altri marinai superstiti non navigarono più.
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