GIUSEPPE GUASTELLA e SIMONA RAVIZZA per il Corriere della Sera
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Mentre la pandemia mieteva vittime tra gli anziani, il 65% dei quasi 900 operatori del Pio Albergo Trivulzio non era al posto di lavoro per malattia o in permesso. «Un livello così elevato di assenze difficilmente trova spiegazione nella diffusione del contagio tra gli operatori» da Covid-19 scrive la Commissione regionale sulla gestione dell'emergenza nel Pat nella relazione conclusiva che segnala altre criticità, come la scarsità di dispositivi di protezione individuale e la carenza nell'applicazione delle misure di sicurezza per i lavoratori.
Tra i dati positivi, se così si può dire, la mortalità inferiore alla media tra gli ospiti. Istituita l'8 aprile per «accertare l'entità di quanto accaduto e analizzare le procedure adottate sin dalle fasi iniziali del contagio», la Commissione ha concluso il suo lavoro (23 riunioni, 16 audizioni e 1.400 documenti esaminati).
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I risultati sono stati trasmessi alla Procura di Milano che ha in corso inchieste sul Pat e su altre Rsa. La premessa è che ci si è trovati di fronte a uno «straordinario fenomeno pandemico» in cui la Lombardia è stata la prima regione dell'Occidente ad essere coinvolta. Con oltre mille posti letto complessivi, centinaia di prestazioni ambulatoriali e riabilitative al giorno, il Pat ha inizialmente affrontato l'emergenza con grandi difficoltà, come altre strutture simili.
Le prime misure per il distanziamento sociale sono del 23 febbraio, quando vengono limitati gli accessi dei visitatori, che saranno vietati solo il 10 marzo. Cinque giorni prima il documento di valutazione del rischio biologico prevedeva già igienizzante per mani in ogni reparto, ma mascherine ffp2 solo per il personale considerato a rischio per le proprie condizioni di salute e non per il lavoro che svolge.
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Solo il 22 marzo, in pieno lockdown, viene fatto riferimento ai rischi di contagio a causa del droplet e bisogna attendere il 22 aprile per le prime prescrizioni di sistemi antivirus per altre parti del corpo. Ma quello dell'approvvigionamento dei dispositivi di protezione, ricorda la commissione, è stato un problema comune.
Il Pat, che aveva scorte di mascherine sufficienti solo «in una situazione ordinaria», deve attendere il 23 marzo per la prima fornitura della Protezione civile. «Non si sono reperiti riscontri circa gli asseriti ordini impartiti a taluni operatori di non indossare i dpi», annotano i commissari in relazione alle denunce circolate. La relazione affronta diffusamente la questione assenteismo. Al 21 febbraio «solo il 9%» dei lavoratori «è assente per infortunio da contagio da Covid».
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Il resto è a casa per altri motivi con il risultato di far scendere a 265 i presenti: «Un elevato tasso di assenteismo del personale, anche prima dell'emergenza sanitaria, che ha raggiunto dimensioni tali da rendere difficoltoso non solo il rispetto di regole e procedure ma gli stessi livelli di assistenza».
Ma c'è anche l'altro lato della medaglia: gli scarsi tamponi sui lavoratori. Se nelle strutture sanitarie pubbliche in media il 40% degli operatori viene sottoposto a tampone, con il 21% di casi positivi, nel Pat la percentuale scende al 21% (16% di positivi). Il test sierologico fatto al 64% degli operatori nelle altre Rsa, con il 17% di positivi, ha invece coinvolto il 68% del personale della Baggina col 18% di positivi.
La conclusione è che a un «solido e strutturato» sistema di prevenzione sulla sicurezza sul lavoro che esiste sulla carta, nel Pat non è «corrisposta una piena e adeguata applicazione di regole e procedure» di tutela dei lavoratori. La relazione affronta anche la questione dei malati arrivati dagli ospedali nell'emergenza, nessuno dei quali in teoria era Covid perché la struttura non ha accettato di accoglierne. Qual è la verità? Erano «dichiarati no-Covid dalla struttura di provenienza», sottolineano i commissari, solo perché non avevano sintomi, il che «non forniva sufficienti garanzie nell'eventualità d'ingresso di persone infette asintomatiche».
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Le indagini hanno scoperto che i primi casi sospetti si sono sviluppati nella Baggina a fine febbraio.
A contribuire alla circolazione del virus hanno concorso la mancata applicazione delle misure di distanziamento; gli assembramenti di pazienti, parenti e operatori, ad esempio in sala mensa; l'incompleto/intempestivo isolamento dei casi sospetti oppure le «limitate/incoerenti informazioni» fornite ai familiari. I documenti farebbero ritenere che «la gestione dell'emergenza è stata conforme ai protocolli e alle raccomandazioni dell'Oms, dell'Istituto superiore di sanità e della Regione», tuttavia, rilevano severamente i commissari, «le indagini, le testimonianze, e le denunce» hanno evidenziato «criticità e limitazioni che meritano di essere descritte e analizzate».
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Ma ci sono note positive, come la presenza di istruzioni e presidi per l'igiene, i dispenser di gel per le mani, gli accessi dei visitatori regolamentati e la «diligenza piena di operatori e addetti all'assistenza degli ospiti». Le raccomandazioni finali invitano a una «riorganizzazione interna» per «rispondere più efficacemente in caso di emergenza». Più camere singole per garantire l'isolamento dei pazienti, aumentare la presenza di personale e, ovviamente, di dpi.
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