cochi ponzoni
Egle Santolini per "la Stampa" - Estratti
«Ci aveva sentito nelle vecchie canzoni anarchiche e nei nostri primi pezzi ed era impazzito: "Mi ve mandi a Sanrèm!", diceva. Lucio Fontana ci voleva un bene dell'anima. E poi, tra Oca d'oro, Pino la parete e Giamaica, le tre osterie più famose di Milano, era tutto un: piacere, Bianciardi, buonasera, mi chiamo Buzzati. Piero Manzoni, ripudiata la famiglia nobile, era un bohèmien scartellato che faceva la fame vera. Umberto Eco un giovanotto seduto al tavolo con un bicchiere di vino. Venivano Dario Fo e la Franca. Noi? Noi che cosa voleva che capissimo: avevamo quindici anni».
Vai a trovare Cochi Ponzoni, che in quel "noi" racchiude l'inseparabilità da Renato Pozzetto, e nel suo salotto riesplode la Milano innocente e nebbiosa degli anni Cinquanta-Sessanta.
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Non solo quella. Nel suo libro La versione di Cochi, uscito da Baldini&Castoldi a cura di Paolo Crespi, c'è la televisione creativa di Marcello Marchesi, il cinema di Monicelli e di Lattuada, il teatro di Ugo Gregoretti. Ma una cosa per volta, perché Cochi ne ha viste un milione.
In quelle osterie ci andavate proprio tutti? Si ha l'idea di una permeabilità sociale, nella città di quegli anni, che adesso ci sogniamo.
«Milano era un paesone e all'Oca, per dire, trovavi gli intellettuali, i delinquenti, i magnaccia che verso l'una erano raggiunti dalle loro ragazze, e le chiamavano le loro minestre. Gli orari erano prolungati, i prezzi popolari, l'ambiente interessante. Il cibo tremendo: la peggiore cassoeula del mondo, e da Pino le salsicce velenose all'alcol denaturato. Dopo teatro arrivavano anche le sciure in pelliccia. E lì Manzoni tentava il colpo del diploma. Si avvicinava con una pergamena: signora, per diecimila lire le dò il diploma di culo artistico. In tante gliel'hanno comprato».
E le celebri scatolette di merda d'artista?
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«Credo di essere stato il primo a vederne una. Sulle prime mi era sembrata una lattina di tonno: Piero, finalmente mangi, gli ho detto. Quando mi ha spiegato che cos'era, vedendomi perplesso mi ha ferito a morte. Ero appena tornato da un viaggio di studio a Londra e giravo molto fiero con un gilè. E lui, spietato: ma cosa vuoi capire tu che sembri Topo Gigio?».
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Gaber quando arriva?
«C'era già anche lui, spesso con Maria Monti. Una sera ci fa sentire la Ballata del Cerutti: secondo voi funziona? Un'altra sera vado per lui e la Maria al Santa Tecla, dove li accompagnava un pianista che si chiamava Enzo Jannacci. Lo vedo per la prima volta, occhi da pazzo, colorito cachettico, la chitarra incollata al mento come un collare. Ha cantato due pezzi, Il cane con i capelli e L'ombrello di mio fratello. E io mi sono innamorato. Siamo stati come fratelli. È la persona con cui ho riso di più in vita mia».
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Il famoso umorismo surreale della scuola milanese?
«L'input forse ce l'hanno dato proprio i pittori, perché ci hanno incoraggiato a fregarcene delle convenzioni e a fare solo le cose che ci piacevano».
Poi, quel fenomeno locale diventa un culto nazionale.
«Al Derby per vedere noi e Toffolo e Andreasi e Lauzi arrivavano Sordi, Tognazzi, Manfredi, Marco Ferreri. Mina quasi tutte le sere. I campioni di Inter e di Milan».
Come siete arrivati in tivù?
«Ci ha portati Marcello Marchesi, avevamo lavorato insieme al Cab 64, lui aveva appena fatto Il signore di mezza età in televisione e i nostri amici Velia e Tinin Mantegazza, le vere anime di quel periodo milanese, molto discreti ma con una grande capacità di aggregazione, avevano creato un pupazzetto che lo riproduceva. Era l'epoca di Bernabei, si cominciava a pensare a un varietà svecchiato. Per Quelli della domenica scelsero Villaggio che a Roma Maurizio Costanzo aveva lanciato al Sette Per Otto, e da Milano arrivammo noi».
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E tutta l'Italia cominciò a ripetere: bravo, sette più.
«Ma i funzionari Rai avevano il mal di pancia, ci trovavano incomprensibili, avevamo contratti a settimana e rischiavamo a ogni puntata. Ci salvò Gianni Agnelli, che in un'intervista dichiarò: alle cinque della domenica io smetto di giocare a golf e guardo Villaggio e Cochi e Renato. Non potevano più cacciarci. E intanto facevamo passare contenuti pazzeschi, il maestro che tutte le volte pretendeva le banconote da diecimila dai genitori dello scolaro. Il ministero della Pubblica Istruzione se ne accorse al quattordicesimo sketch e ci mandò una diffida. Ma ormai era fatta».
Dopo tanti show e una Canzonissima con la Carrà, passate al cinema, su sentieri differenti. Avevate litigato?
«Ma per niente, la separazione è stata consensuale. Avevamo capito che il nostro umorismo non era adatto al cinema e deciso che non avremmo mai fatto coppia nei film.
Quando a Renato arrivò il copione di Per amare Ofelia chiese consiglio a me e a Jannacci. Devi farlo assolutamente, gli abbiamo detto. E dopo una settimana a me capita il miracolo di Bulgakov».
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Ho conosciuto gente fantastica, con Alberto Lattuada siamo diventati amici, viaggiato per il mondo. A New York l'ho accompagnato a casa di Saul Steinberg, che con lui aveva studiato Architettura a Milano. Con Alberto parlavano in dialetto, e con me s'informò: se dis cusè, a Milan?Monicelli lo chiamavamo il Colonnello. Con lui e Sordi ho girato il Marchese del Grillo, e anche lì c'è una bella storia Rai».
Raccontabile?
«Monicelli del Marchese voleva fare una serie a puntate in tv, il copione era pronto. Ma un funzionario voleva combinare l'inciucio, gonfiare le spese e fare a mezzo. Il Colonnello non c'è stato. Al cinema la mia parte si è ridotta, ma è stato un onore. Poi cominciò la deriva delle coscialunghe e dei pierini. E allora ho preferito il teatro».
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Adesso chi la fa ridere, fra tutti questi nuovi stand up comedian?
«Valerio Lundini. E un ragazzo geniale, Nicola Vicidomini, che in scena ha un aspetto disturbante. Ti fa pensare: rido e non so perché. È la stessa cosa che dicevano a noi. Succede quando arrivi alle radici dell'umorismo. Al riflesso che scatta quando sei bambino».
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