Giampiero Mughini per Dagospia
giampiero mughini
Caro Dago, eccome se ne vale la pena delibare le tre puntate del documentario sull’Italia-Brasile 3-2 del 1982 appena prodotto per Sky da Luca Barbareschi. Il Time, un giornale che sa quello che dice, l’ha consacrata come la più grande partita di calcio del Novecento, e dire questo di una partita di calcio vuol dire che quello è stato il più grande spettacolo teatrale del Novecento. Dato che _ sono parole di Carmelo Bene, uno che ci passava le notti a godersi i tornei di calcio di tutto il mondo _ il football è il più grande spettacolo teatrale al mondo.
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E questo perché ogni partita è diversissima da tutte le altre, nel senso che ogni volta ne succedono di tutti i colori. E non c’è regista al mondo che avrebbe potuto architettare un tale svettare di personaggi e una tale sequenza di episodi che ogni volta rovesciavano il racconto, come accade in quei dannatissimi e meravigliosi 90 minuti di Italia-Brasile di quarant’anni fa.
Una sequenza che nemmeno Alfred Hitchkok avrebbe saputo immaginare. Loro che erano forse la più formidabile squadra carioca di tutti i tempi, almeno cinque o sei dei fuoriclasse immani. Noi che sino a quel momento abbiamo giocato così e così salvo la vittoria contro l’Argentina di un certo Maradona.
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Più ancora, i nostri giocatori che sino a quel momento erano stati bersagliati di insulti dalla stampa italiana che ci dava per morti, che ci augurava di tenere basso l’inevitabile massacro da parte dei brasiliani, che riempiva di improperi il ct Enzo Bearzot perché continuava a dar fiducia al centro del nostro attacco a un morto che cammina, a quel Paolo Rossi che veniva da una sosta di due anni a causa di una squalifica
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Al punto che i nostri giocatori si rifiutano a un certo punto di avere a che fare con i giornalisti italiani e decidono il silenzio stampa. I nostri giocatori, quelli di una squadra che di fuoriclasse ne aveva a sua volta tanti. Il nostro portierone Zoff, i due mostruosi terzini della Juve Gentile e Cabrini, Gaetano Scirea, l’ubiquo Marco Tardelli, un Bruno Conti che in quel torneo toccò le vette del cielo, un Lele Oriali indimenticabile nel fare muro a protezione della difesa, un Paolo Rossi che nelle tre ultime partite del Mundial di gol ne fece sei uno dopo l’altro (bellissimo quello contro la Germania che sbloccò il risultato) sino a conquistare il titolo di “hombre del partido”: l’uomo che aveva deciso la finale della Coppa del Mondo.
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Eccome se ne vale la pena delibare le tre ore che dura il documentario di cui sto dicendo. Impressionante il momento in cui il di solito rocciosissimo Claudio Gentile (contro il Brasile quello annullò Zico) ricorda che mentre stavano entrando in campo per Italia-Argentina Bearzot gli dice che sarà lui a marcare Maradona, e nel raccontare quel momento Gentile scoppia a piangere e perché ricorda gli insulti che erano piovuti su di loro prima di Italia-Argentina 2-1 e perché lui nel frattempo è stato cancellato dal suo secondo mestiere, quello di allenatore, dove pure aveva fatto benissimo.
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Piange Gentile, ma ho pianto anch’io ieri sera nel vedere quelle immagini e nel ricordo di quanti non ci sono più, Bearzot, Scirea, Paolo Rossi, il personaggio che da solo regge tutta la drammaticità del racconto. Nella valutazione di tutti lui era nessuno al momento in cui la partita comincia, ebbene fa un gol dopo cinque minuti, ne fa un secondo altrettanto bello a due terzi del primo tempo, ne fa un terzo quando il Brasile aveva pareggiato e a quel punto per noi non v’era più speranza (il pareggio bastava al Brasile per passare il turno).
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Ma c’è un’altra cosa meravigliosa del tutto. L’arbitro della partita era un israeliano il cui figlio in quei giorni era stato ferito in uno dei tanti combattimenti che Israele ha patito pur di sopravvivere. A commento della partita l’arbitro israeliano dice che il risultato giusto ne era stato 4-2, perché il gol di Giancarlo Antognoni che era stato annullato per fuorigioco era invece validissimo, ciò che a molti di noi era apparso palmare. 4-2, non 3-2. E a non dire le immagini alla fine della partita in cui Conti e Falcao (che nel torneo italiano di serie A erano compagni di squadra nella Roma) si scambiano le maglie senza dirsi una sola parola. Perché non c’erano parole bastevoli da dire dopo quell’inaudita epopea.
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