Marco Procopio per www.ilfattoquotidiano.it
C’è chi la chiama “trappola del debito” e finora sembrano esserci “cascati” Paesi in via di sviluppo come il Pakistan, le Maldive, il Laos, il Gibuti, ma anche l’europeo Montenegro. Tutti hanno firmato accordi con la Cina per prendere parte alla Nuova via della Seta, il grande piano geo-economico con cui il presidente cinese Xi Jinping punta a trasformare l’Eurasia.
via della seta luigi di maio
Ma tutti hanno accettato massicci prestiti per lo sviluppo delle proprie infrastrutture senza essere in grado di rimborsarli. Così, ora gran parte del loro debito pubblico è in mano alla Cina. Al progetto ha deciso di prendere parte anche l’Italia, primo Paese del G7 a farlo, con il memorandum firmato dal governo lo scorso 23 marzo. E sebbene si tratti di un’intesa non vincolante e diversa dai contratti già firmati da alcuni Paesi in via di sviluppo – le cui economie sono certamente meno solide di quella della Penisola -, non è ancora chiaro quali saranno i passi successivi dell’Italia (e a quali condizioni).
Quando Marco Polo percorse la via della Seta e arrivò nel Catai, l’odierna Cina settentrionale, la descrisse come una terra dove “si fae molta seta”, ricca di “grandi cose”, “belle città e belle castella di mercatanti e d’arti”. Uno splendore che Pechino punta a rafforzare ancora oggi con la Nuova via della seta (ufficialmente Belt and road initiative), per cui sono già stati spesi oltre 140 miliardi di dollari.
L’obiettivo è creare sei nuovi corridoi di trasporto lungo 68 Paesi (dove risiede il 65% della popolazione globale) seguendo due direttrici principali: la via della Seta terrestre, che collega Pechino all’Asia centrale e alla Russia; e la Nuova via della Seta marittima, un corridoio navale che dalla Cina meridionale arriva sulle coste dell’Africa, passa il canale di Suez, fa scalo al Pireo e quindi punta al cuore dell’Europa attraverso i porti italiani. Proprio i porti di Trieste e Monfalcone e quello di Genova sono al centro dei due accordi di cooperazione firmati dall’Italia con China communications construction company, uno dei principali player della Belt and road initiative.
CINA - LA NUOVA VIA DELLA SETA
Il piano voluto da Xi Jinping prevede che la Cina finanzi le nuove infrastrutture per ampliare il suo spazio economico ed estendere il suo “soft power” nel mondo, mentre i Paesi coinvolti beneficiano di queste nuove rotte attraverso un aumento dell’export, la creazione di posti di lavoro e così via. Non ci sono condizioni ulteriori, come quelle che solitamente l’Occidente impone agli Stati africani con le sue politiche di cooperazione: garanzie sui diritti umani, sulla sostenibilità finanziaria o su quella ambientale.
“Gli investimenti cinesi in Africa non sono vincolati ad alcuna condizione politica, non influiremo sulle vostre politiche interne né faremo richieste che non potete soddisfare”, ha ribadito lo stesso presidente cinese a settembre 2018 quando ha ospitato a Pechino oltre 40 leader africani. Ma dove i lavori per la Nuova via della Seta sono già iniziati questo approccio inizia a mostrare alcuni problemi, con Paesi troppo indebitati e decisi a ridiscutere radicalmente i progetti già avviati.
Il primo caso è scoppiato in Sri Lanka, dove nel 2008 l’allora presidente Mahinda Rajapaksa avviò la costruzione del nuovo porto di Hambantota. La città si trova nella punta meridionale dell’isola e oggi dovrebbe essere uno degli snodi della nuova via della Seta marittima. Il prezzo dell’operazione, stimato in circa 360 milioni di dollari, è stato finanziato per oltre l’80 per cento proprio dalla Cina.
VIA FERROVIARIA DELLA SETA
Ma i risultati non sono stati quelli sperati: come riporta il New York Times, nel 2012 il porto ha intercettato solo 34 navi rispetto alle decine di migliaia che affollano l’Oceano Indiano. A niente sono serviti gli sforzi del nuovo presidente Sirisena: per far fronte ai debiti, il suo governo è stato costretto nel 2017 a cedere la gestione della struttura alla stessa Cina per 99 anni. Una situazione che si aggiunge agli altri grandi progetti costruiti con prestiti cinesi nella zona di Hambantota: uno stadio di cricket con più posti rispetto alla popolazione della capitale del distretto, un aeroporto internazionale, un’autostrada ora attraversata anche dagli elefanti che popolano la giungla circostante.
Tutti investimenti che hanno contribuito a far triplicare il debito pubblico dello Sri Lanka durante il governo di Rajapaksa, considerato molto vicino a Pechino. Secondo alcune stime, il debito del Paese nei confronti della Cina è arrivato a circa 5 miliardi ed è destinato ad aumentare nei prossimi anni. Una situazione di subalternità che rischia di avere anche ricadute militari, vista la continua militarizzazione dell’area nel Mare cinese meridionale. Il porto di Hambantota che ora è nelle mani del Dragone, infatti, non può essere utilizzato per scopi bellici a meno che non venga concesso il permesso dal governo centrale (per ora contrario). Ma i governi cambiano, e per le prossime elezioni è già sceso in campo Gotabaya Rajapaksa, fratello di quel presidente Mahinda Rajapaksa che ha orchestrato gli affari con la Cina sin dal suo insediamento.
La storia recente dello Sri Lanka, in cui si intrecciano i piani della via della Seta, la politica e gli interessi di un Paese in via di sviluppo, non è affatto isolata. Secondo un report del 2018 del think tank americano Center for global development, sono 23 gli Stati coinvolti nella Belt and road initiative che potrebbero avere gravi problemi finanziari.
via della seta mongolia
Fra questi, otto hanno già valori di indebitamento con Pechino molto alti e un rapporto debito/Pil in forte aumento. Si tratta di Pakistan, Maldive, Laos, Montenegro, Mongolia, Tagikistan, Kirghizistan e Gibuti. Quest’ultimo, ad esempio, ospita l’unica base militare oltremare della Cina e ha visto aumentare il suo debito pubblico esterno dal 50 all’85 per cento del Pil in soli due anni. Gran parte del credito, spiega l’istituto americano, è dovuto alla China Exim Bank. In programma ci sono nuove infrastrutture (tra cui due aeroporti e un terminal petrolifero), ma non c’è alcuna garanzia che saranno in grado di generare entrate sufficienti per ripagare questi debiti.
paolo gentiloni con xi jinping al forum per la via della seta 3
Nella “trappola” è finito anche il Montenegro, alle prese con la realizzazione di un’autostrada da 165 chilometri in una delle zone più impervie dell’Europa meridionale. La prima fase del progetto, costata 1,1 miliardi e finanziata per l’85 per cento sempre dalla China Exim Bank, ha fatto impennare il debito del Paese e costretto il governo ad aumentare le tasse e a congelare in parte gli stipendi dei dipendenti pubblici. Secondo il Fondo monetario internazionale, per costruire la seconda e la terza parte dell’autostrada saranno necessari fondi con tassi altamente agevolati, pena l’insolvenza del debito.
macron xi jinping con peng e brigitte
Una situazione non troppo diversa da quella delle Maldive, il cui debito sovrano, in base alle stime riportate da Forbes, è per l’80 per cento in mani cinesi. “Non siamo nelle condizioni fiscali per portare avanti questi contratti. Quindi è nel nostro interesse rinegoziarli”, ha dichiarato a inizio anno al Financial Times il nuovo ministro delle Finanze maldiviano. Parole simili a quelle pronunciate dal premier della Malesia poco dopo la sua elezione, con cui ha annunciato lo stop a tre progetti legati alla Nuova via della Seta (una ferrovia e due gasdotti da oltre 20 miliardi di dollari complessivi).
Uno dei problemi della Cina nella realizzazione di questo piano di investimenti, sostiene il think tank Center for global development, è l’indisponibilità a partecipare a tavoli multilaterali per la cancellazione del debito dei Paesi più in difficoltà e a rispettare gli standard internazionali. Finora il governo guidato da Xi Jinping si è mosso “caso per caso nella riduzione dei debiti, pur impegnandosi in modo informale con il personale del Fondo monetario internazionale per i singoli casi”. Sembra quasi un’occasione mancata, perché la Nuova via della Seta “potrebbe stimolare la crescita della produttività nei Paesi in via di sviluppo – conclude il report – ma in assenza di regole trasparenti sulla sostenibilità finanziaria rischia di far regredire questi stessi Paesi e bloccarne la crescita”.
PUTIN XI JINPING